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La nostra storia – 30 giugno 1960 (6) Tutti a De Ferrari

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Giovedì 30 giugno

L’APPELLO DEI SINDACATI
E DEI PARTITI DEMOCRATICI

La Commissione esecutiva della Camera confederale del lavoro della provincia di Genova in occasione della proclamazione dello sciopero generale contro il congresso del MSI rivolge ai cittadini e ai lavoratori il seguente appello:

Cittadini, lavoratori,

Alle ore 14 di oggi, 30 giugno, e fino alle ore 20, i lavoratori di tutte le categorie della provincia di Genova scenderanno in sciopero generale per elevare ulteriormente la loro indignata protesta contro il congresso dei fascisti del MSI che si dovrebbe tenere nella nostra città nei prossimi giorni di luglio.

I lavoratori e i cittadini genovesi sanno, per loro dolorosa esperienza, quanto funesta sia stata per il popolo italiano la dittatura fascista.

Oggi, a quindici anni dalla Liberazione, i torturatori e i massacratori di partigiani, i manganellatori, coloro che hanno consegnato il Paese alle orde naziste, dovrebbero tornare, tracotanti, ad infangare i grandi valori della Resistenza genovese,

Contro questo oltraggio, da ogni luogo di lavoro, dalle officine, dai cantieri, dalla calate del porto, dalle navi, dagli uffici,  si levi ammonitrice la protesta di quanti hanno a cuore l’avvenire del paese.

Memori delle battaglie sostenute perché l’Italia dovesse essere libera e democratica, i genovesi sappiano manifestare la loro ferma volontà di fare progredire nella democrazia e nella pace la nostra giovane Repubblica.

Cittadini, lavoratori!

Partecipate compatti allo sciopero generale provinciale proclamato dalla Camera Confederale del Lavoro. Manifestate contro qualsiasi rigurgito fascista, contro il congresso dei fascisti a Genova.

I partiti democratici esortano a loro volta la popolazione a partecipare allo sciopero generale:

I partiti antifascisti hanno altamente apprezzato la decisione della classe lavoratrice genovese di testimoniare con lo sciopero generale la sua inalterata fede antifascista e democratica.

Essi rivolgono agli operai, agli impiegati, ai tecnici ed agli operatori, così come a tutto il popolo genovese, il fraterno invito a partecipare a questa solenne dimostrazione di protesta che travalica i confini ideologici e politici dei Partiti e delle organizzazioni per assurgere ad espressione dell’intero popolo genovese.

Partito Socialista Italiano

Partito Socialdemocratico Italiano
Partito Comunista Italiano

Partito Repubblicano Italiano
Partito Radicale

La nostra storia – 30 giugno 1960 (5) Il Sindacato

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LA PROCLAMAZIONE
DELLO SCIOPERO GENERALE

 

La Segreteria della CCdL comunica:

 

Domani dalle ore 14 alle ore 20 tutte le categorie di lavoratori della Provincia di Genova scenderanno in sciopero generale, in segno di protesta contro l’annunciata adunanza a Genova.

Eventuali particolari modalità sullo svolgimento dello sciopero saranno specificate dai rispettivi Sindacati di categoria.

 Nel periodo dello sciopero i dirigenti sindacali di ogni istanza membri delle Commissioni Esecutive della Camera Confederale del Lavoro e delle Camere del Lavoro succursali, dei Direttivi dei sindacati Provinciali e di Lega, membri confederali di Commissione interna, Sezioni sindacali di Azienda, collettori attivisti e lavoratori, si concentreranno nei locali di via Balbi da dove, unitamente alle delegazioni delle Camere del Lavoro della Liguria e di altre provincie, si recheranno a rendere omaggio al Sacrario dei Caduti partigiani in via XX Settembre.

Alle ore 19, un’ora prima della cessazione dello sciopero, negli stessi locali di via Balbi, è convocata in seduta straordinaria, l’attivo generale allo scopo di esaminare la situazione prendere eventuali altre importanti decisioni.

La nostra storia – 30 giugno 1960 (4) Le Donne

partigiane

LA PROTESTA DELLE DONNE ANTIFASCISTE 

Le donne genovesi antifasciste, riunite alla Società di Cultura martedì 28 Giugno

constatato

che il MSI, nato sotto velate spoglie democratiche, si è invece rivelato, nel corso di questi anni, quale riorganizzazione del soppresso partito fascista; e che quindi racchiude ed alimenta gli stessi principi che privarono della libertà il popolo e scatenarono la guerra

affermano

essere il MSI partito contro la Costituzione,Le donne genovesi che non dimenticano l’odio scatenato dal fascismo

ricordano

a tutti gli italiani: vecchi e giovani che fascismo significa “case distrutte, paesi incendiati, orfani, persecuzioni, torture, discriminazioni razziali, morte, camere a gas, abbrutimento dei valori umani”.

protestano

per l’insulto che Genova, città Medaglia d’Oro della Resistenza, subirebbe dal Congresso Nazionale del MSI

denunciano

come permettere che persistano e si sviluppino nostalgiche velleità fasciste costituisce un effettivo pericolo di ritorno al nefasto 1921-1945.

chiedono

che il Congresso del MSI fissato a Genova, non abbia luogo e che sia applicata la norma transitoria XII della Costituzione; “E’ vietata la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista”.

Le donne genovesi antifasciste 

La nostra storia – 30 giugno 1960 (2) Testimonianze

…Sugli sviluppi della battaglia e sulle vicende successive .che portarono all’annullamento del congresso missino, ebbe una parte dI primo piano Giordano Bruschi. Il suo racconto in certi punti ha i toni dell’epopea popolare, resa evidente dalla dichiarazione iniziale.

…..Una delle cose più importanti della mia vita è stata la decisione della Commissione esecutiva della Camera del Lavoro di Genova, nel giugno del 1960, quando da soli, senza CISL e UlL, organizzammo lo sciopero e la manifestazione che portò poi ai noti fatti del 30 giugno.
Il gruppo della Commissione esecutiva della Camera del Lavoro, una ventina di compagni comunisti e socialisti, me compreso, si assunsero la grossa responsabilità dei fatti del 30 giugno del 1960. La Camera del Lavoro ebbe la grande intuizione di capire la spinta popolare, che fu notevolmente più grande di quanto non si pensasse. Fissammo l’appuntamento per il corteo in una piccola piazza, piazza della Nunziata, per le ore15del 30 giugno. Lì non pensavamo che ci fosse la marea di gente che invece si presentò. Tantissimi giovani; fu uno dei momenti storici delle saldature delle diverse generazioni, quella dei ragazzi delle magliette a strisce, assieme ai lavoratori. Fu una grande manifestazione spontanea che ho vissuto momento per momento.
In 100.000 hanno partecipato al corteo. Quando sono scoppiati gli incidenti in piazza De Ferrari c’erano rimaste in piazza circa 15.000 persone, che non volevano allontanarsi L’atteggiamento del la polizia era provocatorio; fu inevitabile lo scoppio degli incidenti. Quello che nessuno aveva previsto, tanto meno la polizia, fu che la rabbia sarebbe esplosa in modo da cacciarli dalla piazza con le jeeps e tutte le sue armi. Io ero lì: proprio vicino al palazzo della Società Italia dove erano schierati i gipponi della polizia. Alla prima carica della polizia, i gipponi si misero a ruotare vorticosamente prima sulla strada, poi salirono i gradini, e schiacciavano le persone, che si rifùgiavano verso la vasca, con una grande brutalità. Anch’io salii sul bordo della vasca con i poliziotti che arrivavano sfiorarci e con i manganelli a colpire. In una di queste cariche sono finito nella vasca, e sono rimasto bagnato, inzuppato tutto il giorno. In un primo momento, la polizia riuscì a sgombrare la piazza,con bombe lacrimogene, sfollagente, ecc. Ma avvenne un fatto imprevisto: gli operai cacciati dalla piazza si ritirarono lungo i vicolioverso piazza Dante, e non appena si fu ricostituita una situazione favorevole, ci fu una invasione di massa della piazza. Ci vorrebbe probabilmente un grande cineasta come John Ford per descrivere la cavalcata di migliaia di persone che da tutti i lati della piazza con un grande urlo si gettarono di nuovo verso la fontana. I poliziotti prima tentarono qualche carosello, però i cittadini esasperati per le cariche e per gli spari questa volta ebbero il so pravvento. Una dopo l’altra le autoblinde furono immobilizzate. Una dopo l’altra le squadre della Celere furono costrette a scappare. Un ufficiale fu gettato dentro la vasca; intervenne un compagno della Camera del Lavoro per impedire che questo capitano della Celere di Padova annegasse perché era saldamente tenuto da un operaio per il collo con la testa infilata sotto l’acqua. C’era l’esasperazione, e poi c’erano i cantieri edili dai quali vennero prese delle tavole, ecc. I poliziotti che finirono all’ospedale furono272.Lo scontro fu veramente durissimo. Quanti fossero i manifestanti feriti non si è mai saputo, perché in genere i lavoratori non andavano a farsi curare al Pronto soccorso. Poi l’ANPI compì un’opera di pacificazìone, perché ancora in serata c’erano blocchi stradali, e la tensione era fòrtissima. Ricordo che nella notte fra il10e il 12 luglio era ancora incerto se si sa rebbe tenuto il raduno fascista, perché si tentavano le solite mediazioni politiciste; anche esponenti della sinistra avevano accettato che si tenesse il congresso invece che in via XX Settembre a Nervi. Ma lavoratori e partigiani non ne volevano assolutamente sapere. Ero alla Camera del Lavoro all’una di notte fra il sabato e la domenica (il30 giugno era un giovedì); venne il comunicato della Prefettura con il quale il prefetto annullava il congresso. Allora un gruppo di dirigenti sindacali come prima cosa si recò in via XX Settembre, dove c’è il sacrario dei caduti partigiani, che in quei giorni era ancora presidiato dai lavoratori. Ricordo con commozione il comizio che facemmo con l’annuncio che la battaglia era stata vinta. E poi tutta la notte andammo nelle stazioni di Principe e di Brignole per gridare ai fascisti che se ne andassero a casa perché il congresso non si sarebbe tenuto.
La testimonianza di Bruschi è tratta da :
“Vite da compagni”
di Nicolò Bonacasa e Remo Sensoni
Edizioni EDIESSE

16 GIUGNO 1944 – la storia di quei giorni

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16 GIUGNO 1944: I FATTI – GLI ANTEFATTI

Ogni città grande o piccola d’Italia ha vissuto le sue sofferenze durante gli anni del regime fascista, della guerra e dell’occupazione nazista. Ogni città e paese ha avuto i suoi martiri: i civili massacrati per rappresaglia, i Resistenti Partigiani e, qualche città, ha avuto anche, tra le vittime, i cittadini lavoratori delle fabbriche, i protagonisti della Resistenza operaia le cui armi furono il sabotaggio ma soprattutto lo sciopero dai posti di lavoro- proibito dal 1926 con le leggi dette fascistissime-, atto di protesta contro i bassi salari, lo sfruttamento, le razioni da fame e ben presto atto politico contro le dittature, la guerra, per conquistare la pace, la libertà, per la salvaguardia delle fabbriche e del lavoro per il futuro.

Genova è una di queste città, non l’unica certo ma quella in cui l’entità della reazione e la rappresaglia nazifascista non ha avuto eguali nell’Europa occupata.

IL FATIDICO VENERDI’

Gli stabilimenti della periferia di ponente, tra Sestri e Cornigliano, allora i più importanti S.Giorgio, Piaggio, Cantieri Navali, Siac, il 16 giugno 1944, un venerdì, nelle prime ore del pomeriggio, furono accerchiati dai nazisti occupanti e dai fascisti di Salò e 1288 lavoratori sotto la minaccia delle armi, furono deportati in Austria, Germania e nei paesi europei occupati dai nazisti. Solo qualche giorno prima, il 10 giugno, erano stati deportati 34 operai dell’Ansaldo.

Dopo un viaggio estenuante, che attraverso i racconti immerge in un incubo identificativo, i treni, in cui era stata pigiata la merce umana, raggiunsero il campo di Mauthausen, la prima tappa.

Oltre la paura sulla propria sorte, non mancò nulla per rendere tragica l’atmosfera: la pioggia fredda per i genovesi in canottiera o camiciola, le urla ossessive ”SchnellSchnell” e i colpi con il calcio dei fucili delle SS quando gli zoccoli e i sandali estivi, incastrati nel fango della strada, rallentavano il ritmo della corsa, non mancarono neppure gli sputi della folla sui “traditori” dell’asse.

Correvano per raggiungere Mauthausen, i 16enni della scuola apprendisti, i 18enni appena promossi operai e gli operai finiti, mano d’opera preziosa, ed i dirigenti cui toccherà provare il lavoro manuale.

 PERCHE’ QUESTA RAZZIA

Già prima della guerra, la propaganda tedesca – in prospettiva di un’ aumentata necessità di produzione industriale- invitava gli italiani, preferibilmente specializzati e del Sud Tirolo a lavorare in Germania. Le adesioni, almeno quelle spontanee, furono molto al di sotto delle aspettative nonostante le condizioni di lavoro offerte. Dopo l’8 settembre, mentre i tedeschi continuano a combattere gli anglo-americani, l’Italia fatica anche a reclutare soldati per la RSI. Alla seconda chiamata di leva, infatti, si presentano in scarso numero, quelli soprattutto, convinti o meno, che temono ritorsioni per la propria famiglia, gli altri si nascondono e prendono la via della montagna.

 La Germania ha assoluto bisogno di mano d’opera specializzata per mantenere attiva ed efficiente la macchina bellica del Reich. La necessità di mano d’opera non è però l’unica spiegazione ad una rappresaglia di tale entità. Esiste un’altra motivazione che impegna all’arrivo a Mauthausen, anche i responsabili della gestione del campo: i quasi 1300 lavoratori genovesi devono o no essere considerati prigionieri politici? Da Genova sono partiti con questa etichetta e così sono stati trattati a Mauthausen. Considerarli prigionieri politici poteva essere la vendetta per una città in cui Resistenza operaia e partigiana e popolazione rappresentavano un fronte unico e compatto anche di fronte alle minacce del prefetto Basile e alle uccisioni dei primi partigiani. A Mauthausen successivamente prevalse, forse per necessità, l’opinione di considerarli “liberi” lavoratori, destinati sì al lavoro coatto ma, rispetto ad altri deportati, con un trattamento, almeno teoricamente, migliore.

GLI SCIOPERI: LA PRIMA FORMA DI RESISTENZA ITALIANA

1942/ giugno 1944: nel corso del ‘42 in molti italiani l’entusiasmo per il regime si è raffreddato. Tra i lavoratori delle fabbriche, piccoli gruppi di antifascisti di antica data- specialmente comunisti e socialisti- sono da sempre attivi nella clandestinità e, con molta accortezza, evitando i pericoli continui delle spie, riescono a proseguire la raccolta dei fondi del Soccorso Rosso ed a creare una rete di collegamenti, più o meno stretta, tra i compagni delle fabbriche e non solo di quelle genovesi e liguri.

 I volantini e i giornali antifascisti che lasciano per la strada, nei gabinetti e negli spogliatoi delle fabbriche, già da prima della guerra, hanno ora una quasi sistematica comparsa, specie l’UNITA’ e l’Avanti e le notizie – come quelle trasmesse dalle stazioni radio estere e vietatissime da ascoltare – contrastano con quelle della stampa di regime: la Vittoria nazifascista proprio non si intravede.

 Sono invece sotto gli occhi di tutti i risultati delle infelici campagne di guerra. Quella di Russia soprattutto ha disseminato l’Italia di lutti, migliaia i morti e i dispersi, senza contare gli invalidi.  I nostri militari sono stati attori e testimoni di una tragedia che ha visto in azione anche la crudeltà degli alleati tedeschi (Non che su altri fronti di guerra, “italiani brava gente” sia un appellativo sempre meritato).

In città e nelle fabbriche compaiono scritte murali contro il regime e molte incitano allo sciopero: i salari e gli stipendi dei lavoratori sono troppo bassi, le razioni di guerra troppo scarse e distribuite senza regolarità. In Liguria la terra coltivabile è poca, mancano quindi risorse proprie e gli approvvigionamenti sono spesso sospesi anche per i bombardamenti che colpiscono strade e ferrovie e ciò che si guadagna, a parte ogni considerazione morale e legale, non consente di ricorrere al mercato nero se non in casi di eccezionale bisogno e con enormi sacrifici: è fame e come suol dirsi della più nera.

Le disgraziate sorti della guerra, i bombardamenti e le altre gravi ripercussioni sui civili, alimentano una sfiducia sempre più diffusa nella dittatura e suscitano un sentimento che se per molti, è ancora solo di disillusa protesta è tuttavia sufficientemente sentito per dar voce alle contestazioni e per aderire agli scioperi “anche degli strati meno politicizzati”

  I comitati clandestini delle fabbriche sono attivi, sanno di avere con sé i lavoratori e le loro famiglie, le donne, lavoratrici e casalinghe, non temono di protestare pubblicamente per chiedere l‘aumento dei salari e delle razioni alimentari.

Nel marzo del 1943 un grande sciopero comincia da Torino e si estende a Milano a Genova e negli altri centri industriali del paese. A Genova, per la disorganizzazione interna dei comitati, lo sciopero non ha successo, tocca solo qualche reparto di alcune fabbriche come la Manifattura Tabacchi di Sestri P., con netta prevalenza di mano d’opera femminile, dove scioperano le addette al reparto sigari.

 L’inizio non sembra promettente, ma il 1943 è l’anno in cui, con gli avvenimenti che di lì a breve avranno luogo, il riscatto dal nazifascismo e l’opposizione alla guerra per un futuro da ricostruire, diventano, a Genova e nella parte di paese occupata, obiettivo politico primario per un numero sempre maggiore di italiani non compromessi.

 E’anche l’anno della deportazione, nei campi di sterminio tedeschi, di 238 ebrei genovesi. Alla fine della guerra ne torneranno 10, e solo allora si conoscerà anche questa enorme nefandezza del regime dittatoriale.

 Il 25 luglio è stato solo un abbaglio di libertà dal fascismo, Mussolini è caduto, ma il fascismo resta, tuttavia almeno, con il nuovo governo Badoglio, si sono aperte le carceri ai dissidenti politici, altri sono tornati dal confino che, per molti, è stato anche scuola di cultura politico-economica, altri ancora, sfuggiti ai tribunali fascisti e rifugiatisi all’estero, tornano dall’esilio forzato. I partiti, non senza contrasti, si riorganizzano.

Trascorrono 45 giorni e l’8 settembre la dichiarazione della firma dell’armistizio con gli anglo-americani è comunicata prima da Eisenhower, poi da Badoglio. In Italia è il caos: non è la fine della guerra e subito lo capiscono i nostri militari,

costretti, senza alcuna direttiva chiara e certa, a scegliere tra fedeltà al patto nazifascista e riscatto al fianco dei nuovi alleati anglo-americani. Cefalonia, con i 9mila soldati ed ufficiali trucidati per non aver ceduto le armi ai tedeschi è l’emblema della volontà e del coraggio disperato dei militari italiani.

L’armistizio non coglie di sorpresa i tedeschi. Da tempo hanno aumentato il numero delle divisioni della Wehrmacht in Italia e mentre al sud queste rallentano di molto la risalita delle truppe anglo-americane, impegnandole in terribili battaglie, al nord, il 23 settembre nasce la Repubblica Sociale Italiana ( RSI ) di Mussolini, fortemente voluta da Hitler.  Oltre 800 mila soldati sono catturati dai tedeschi 600 mila rifiutano di aggregarsi alle truppe tedesche e sono deportati: saranno gli “Internati militari Italiani” (IMI), inquadramento che impedisce di considerarli prigionieri di guerra e di avere pertanto la protezione della Croce Rossa. In un secondo tempo saranno considerarti alla stregua di lavoratori civili.

 Napoli insorge contro i nazifascisti e in 4 giorni, dal 27 al 30 settembre, li scaccia dalla città prima dell’arrivo degli alleati. E’ la prima forma di Resistenza popolare al fascismo, cui partecipano attivamente i militari che dopo l’8 settembre non hanno risposto alla chiamata della RSI e sono riusciti a sfuggire alla cattura dei tedeschi ed i civili. IL 13 ottobre Vittorio Emanuele III dichiara guerra alla Germania, diventiamo cobelligeranti degli anglo-americani.

 L’ORGANIZZAZIONE POLITICA NELLE FABBRICHE

Già pochi giorni dopo l’8 settembre, i tedeschi spadroneggiano nelle nostre città e nelle fabbriche dalle quali, come alla Siac di Genova, “con autocarri tedeschi caricano i prodotti finiti, partendo poi per destinazione ignota”.

Gli oppositori politici già liberati tornano a rifugiarsi nella clandestinità, ma la politica, quella d’opposizione al fascio naturalmente, continua la sua azione ha compenetrato e mutato l’organizzazione interna delle fabbriche e la vita delle città occupate. .  Il PCI clandestino sul finire di settembre istituisce i Gruppi di azione patriottica, piccolo numero di persone coraggiose, non necessariamente comuniste, pronte ad ogni azione di disturbo, alla provocazione ed anche agli attentati al nemico.    Alle Commissioni Interne pervase da spirito fascista, si sostituiscano i Comitati clandestini antifascisti che hanno il compito di affiancare i lavoratori nella difesa dei propri diritti, nell’organizzazione interna delle lotte e nella diffusione della stampa. Quasi contemporaneamente nascono i Comitati di Liberazione Nazionale (CLN) periferici, che agiscono sul territorio e nelle fabbriche soprattutto per coordinare le varie figure professionali con il compito di proteggere e nascondere i macchinari più importanti per la continuità del lavoro a fine guerra.

Dal marzo, non sono stati presi adeguati provvedimenti per migliorare le condizioni di vita della popolazione. Ora è freddo e non c’è combustibile, continuano a scarseggiare i generi alimentari e anche le medicine mancano.

Alla chiamata alla leva della RSI del ’43 i giovani si presentano in discreto numero salvo poi disertare. Per renitenti e disertori, la pena è la fucilazione secondo il bando del repubblichino Graziani.

Volontari antifascisti appartenenti ai partiti già messi al bando ed ora ricostituiti nella clandestinità, renitenti alla leva, militari italiani disertori, russi, slavi, inglesi, fuggiti dai campi di prigionia tedeschi ed anche disertori tedeschi, vanno a costituire le prime formazioni partigiane poco equipaggiate, soprattutto poco armate, è l’opposizione alla dittatura, all’occupazione, alla guerra. Ad aprile e a maggio del 1944, i primi Martiri, della Benedicta 6 aprile e del Turchino 15 maggio.

A GENOVA

Si sciopera il 19 ed il 24 novembre, da Voltri, estremo Ponente della città a Cornigliano, si fermano due tra le fabbrichemaggiori S.Giorgio, Siac ed altre più piccole di altri quartieri.

Gli industriali ed il prefetto Basile concordano nel concedere un aumento salariale, diversificato per categoria di lavoratori, sesso ed età.

L’agitazione non è sedata.  Il 27, scioperano i tranvieri, lo sciopero è politico contro l’arresto di 3 operai che diffondevano volantini. Azioni concordate di sabotaggio, fanno saltare gli scambi in varie zone della città che è paralizzata, circolano solo 70 vetture sotto scorta.

dicembreil 16, preceduto da proteste isolate all’Ansaldo, per la riduzione dell’olio e dei grassi nella tessera annonaria, inizia uno sciopero che diventa generale, si protrae fino al 19 e per alcuni settori fino al 21.

Il 17è ucciso un giovane operaio della S.Giorgio, Alfredo Ferrogiaro, per un’azione di sabotaggio.

Il 18 sono fucilati due giovani Armando Maffei e Renato Livraghi, due operai trovati armati. La città reagisce. Nei quartieri dove abitano le vittime, gli esercizi pubblici chiudono, le strade si svuotano. Agli scioperanti delle fabbriche si aggiungono altre categorie di lavoratori: ospedalieri, panettieri, spazzini, tutti uniti in una grande protesta politica.

Qualche miglioramento della situazione economica: il generale Zimmermann delle SS, incaricato politico delle forze armate tedesche, promette il controllo sui prezzi delle merci il cui aumento vanificherebbe gli aumenti salariali concessi.

15 gennaio 1944, tutte le fabbriche scendono in sciopero. Le prime agitazioni iniziano il 13 al Fossati spontaneamente, prima che l’organizzazione sindacale possa entrare in attività con una direzione delle azioni.   Lo sciopero è compatto anche nonostante il bando di Basile che oltre a limitare la libertà dei civili, aumentando ad es. le ore di coprifuoco, stabilisce la chiusura delle fabbriche in sciopero.

Il 14, Basile, aveva fatto fucilare al forte di S. Martino, 8 prigionieri politici per vendicare l’uccisione di una spia fascista per mano del gappista Giacomo Buranello.E’ il modo del prefetto per dimostrare ai camerati, servilismo e ferocia.

Lo sciopero, per decisione del Comitato di agitazione, si conclude il 20 gennaio: è il primo, straordinario esempio di tenace opposizione della classe lavoratrice al nazifascismo, un danno enorme alla produzione bellica, una vittoria morale dei lavoratori, ma una sconfitta sostanziale poiché nessuna delle loro richieste è accolta, la fame è fame e si fa sentire, così come il freddo. I lavoratori sono delusi. Dopo poche settimane inoltre il 29 febbraio, è pubblicato il minaccioso bando di Basile.

1° marzo, primo sciopero generale del nord Italia che si conclude l’8, è preparato e sostenuto soprattutto dal PCI.

Sono coinvolte Milano e Torino con pieno successo, solo a Genova lo sciopero fallisce. Alla S.Giorgio e all’Ansaldo Meccanico è stroncato sul nascere dagli uomini della Pubblica Sicurezza, mentre alla Siac si ferma un solo reparto. I motivi del fallimento sono vari. La delusione per i mancati risultati dello sciopero di gennaio è ancora troppo recente per alimentare speranze di riuscita con una nuova astensione dal lavoro; si diffonde la notizia dell’uccisione di Giacomo Buranello, avvenuta dopo terribili torture, il 3 marzo, due giorni dopo la proclamazione dello sciopero, ciò scuote profondamente il morale dei lavoratori e contribuisce a frenarne l’azione. I genovesi sono di scorza dura, l’hanno dimostrato e lo dimostreranno, ma insistere ad impegnarli in un’azione della quale non sono pienamente convinti sarebbe un inutile tentativo oltre che un danno enorme per l’unità ormai raggiunta fra i lavoratori. Certo, anche le minacce del bando di Basile hanno il loro peso, relativo però se a distanza di poco tempo, il 1° maggio le bandiere rosse sventolano sull’Ansaldo e sulla Siac, ben visibili da lontano e in molte fabbriche alla sirena delle 10, che suona come prova dell’allarme antiaereo, i lavoratori incrociano le braccia e stanno in silenzio per vari minuti.

Ormai non c’è volantino, scritta murale, giornale clandestino che non chieda la fine della guerra, le proteste dei lavoratori delle fabbriche non si limitano a chiedere miglioramenti economici, chiedono la fine della guerra, la pace.

1giugno, alle 10, al suono della sirena dell’antiaerea, inizia lo sciopero. Si fermano S.Giorgio, Piaggio, Ansaldo, Siac e inoltre Fossati, Ceramiche Vaccari e Ferriere. La Pubblica Sicurezza e i tedeschi intervengono a presidiare le fabbriche.

Il 10 giugno Basile ordina la chiusura delle fabbriche. Il 14 il lavoro riprende, 2 giorni dopo, il 16 giugno 1944 la razzia nazifascista nelle fabbriche.

 Naturalmente questo tragico atto non ferma la Resistenza operaia, gli scioperi e i sabotaggi.  A Genova soprattutto è una continua caccia all’uomo pertanto, il Partito Comunista Italiano titola uno dei suoi articoli de LA NOSTRA LOTTA del 10 luglio del 1944,[10] che ha un corposo elenco di suggerimenti per la migliore organizzazione logistica e politica:

Direttive per la lotta contro le deportazioni

Né un uomo né una macchina per la Germania.

tratto dal sito del “Gruppo 16 Giugno 1944”

25 Aprile, Ricordo, Memoria, Cultura

me…Pochi giorni al 25 aprile, celebrazioni, corone ai sacrari, ricordo di stragi. Il ricordo è una manifestazione puramente personale, individuale. La memoria invece è il frutto di un ricordo collettivo e di una elaborazione condivisa che va a incidere sulla morale, sull’etica in quanto morale condivisa e conseguentemente su quelli che sono i nostri rapporti quotidiani tra persone, comunità e istituzioni.

Soffermarsi quindi sui ricordi collettivi di cosa fu la Resistenza non è un esercizio nostalgico di chi ha avuto parenti amici o conoscenti coinvolti in quella vicenda, ma è la consapevolezza di ciò che siamo oggi, nel nostro ruolo di “singoli” inseriti in tutti quei contesti di comunità che sono la famiglia, la scuola, il lavoro.. …. lo Stato.

Il confine tra civiltà e barbarie è molto più labile di quello che vorremmo pensare e gli esempi non mancano, dalle pulizie etniche dell’ex Jugoslavia ai genocidi in Africa o alle persecuzioni da parte degli integralisti religiosi in varie parti del mondo.

Per queste ragioni non mi stancherò di ricordare e rendere omaggio a chi ha sacrificato parte di se stesso, spesso la vita, per poterci consentire, percorrendo la linea di confine tra civiltà e barbarie, di poter essere per la civiltà, e, come genitore di poter educare mio figlio a quei valori che consentono oggi di poterci esprimere liberamente.

A pochi mesi dalla fine del conflitto, nel 45,  Elio Vittorini proponeva una grande riflessione che ritengo a quasi settant’anni di distanza assolutamente ancora attuale. Un utile strumento per chi oggi pensa che sono cose del passato e che non ci appartengono più.
Loris

Elio_VittoriniUNA NUOVA CULTURA

Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultu­ra che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini

Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che. di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più sangue si chiamano Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dakau.

Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato ch’era sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa «cosa» che c’insegnava la inviolabilità loro. Non è anzi­tutto di questa «cosa» che c’insegnava l’inviolabilità loro?

Questa «cosa », voglio subito dirlo, non è altro che la cultura; lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo la­tino, cristianesimo medioevale,. umanesimo, riforma, illuminismo, libe­ralismo, ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce, Benda, Huitzinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Un Yutang e Santayana, Valéry, Gide e Berdiaev.

Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli?

Dubito che un paladino di questa cultura, alla quale anche noi apparteniamo, possa darci una risposta diversa da quella che pos­siamo darci noi stessi: e non riconoscere con noi che l’insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini.

Pure, ripetiamo, c’è Platone in questa cultura. E c’è Cristo. Dico: c’è Cristo. Non ha avuto che scarsa influenza Gesù Cristo? Tutt’altro. Egli molta ne ha avuta. Ma è stata influenza, la sua, e di tutta la cultura fino ad oggi, che ha generato mutamenti quasi solo nell’intel­letto degli uomini, che ha generato e rigenerato dunque se stessa, e mai, o quasi mai, rigenerato, dentro: alle possibilità di fare, anche l’uomo. Pensiero greco, pensiero latino, pensiero cristiano di ogni tempo, sembra non abbiano dato agli uomini che il modo di travestire e giustificare, o addirittura di render tecnica, la barbarie dei fatti loro. E qualità naturale della cultura di non poter influire sui fatti degli’ uomini?

lo lo nego. Se quasi mai (salvo in periodi isolati e oggi nel­l’U.R.S.S.) la cultura ha potuto influire sui fatti degli uomini dipende solo dal -modo in cui la cultura si è manifestata. Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato princìpi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è identificata con la società, nOn ha governato con la società, non ha condotto eserciti per la società. Da che cosa la cultura trae motivo per elaborare i suoi princìpi e i suoi valori? Dallo spettacolo di ciò che l’uomo soffre nella società. L’uomo ha sofferto nella società, l’uomo soffre. E che cosa fa la cultura per l’uomo che soffre? Cerca di consolarlo.

Per questo suo modo di consolatrice in cui si è manifestata fino ad oggi, la cultura non ha potuto impedire gli orrori del fascismo. Nessuna forza sociale era «sua» in Italia o in Germania per impe­dire l’avvento al potere del fascismo, né erano «suoi» i cannoni, gli aeroplani, i carri armati che avrebbero potuto impedire l’avventura d’Etiopia, l’intervento fascista in Spagna, 1’« Anschluss» o il patto di Monaco. Ma di chi se non di lei stessa è la colpa che le forze sociali non siano forze della cultura, e i cannoni, gli aeroplani, i carri armati non siano «suoi»?

La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è soçietà perché ha in sé l’eterna rinuncia del «dare a Cesare» e perché i suoi princìpi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, vi­venti con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che “‘Sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scon­giuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.

La cultura italiana è stata particolarmente provata nelle sue illusioni. Non vi è forse nessuno in Italia che ignori che cosa significhi la mortificazione dell’impotenza o un astratto furore. Continueremo, ciò malgrado, a seguire la strada che ancora oggi ci indicano i Thomas Mann e i Benedetto Croce? lo mi rivolgo a tutti gli intellettuali ita­liani che hanno conosciuto il fascismo. Non ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti, anche ai cattolici, anche ai mistici. Vi sono ragioni dell’idealismo o del cattolicesimo che si oppongono alla trasformazione della cultura in una cultura capace di lottare contro la fame e le sofferenze?

Occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’« anima ».

Mentre non volere occuparsi che dell’« anima» lasciando a «Cesare» di occuparsi come gli fa comodo del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale e dar modo a «Cesare» (o a Done­gani, a Pirelli, a Valletta) di avere una funzione di dominio «sull’ani­ma» dell’uomo. Può il tentativo di far sorgere una nuova cultura che sia di difesa e non più di consolazione dell’uomo, interessare gli idealisti e i cattolici, meno di quanto interessi noi?

ELIO VITTORINI

(Il Politecnico n. 1, 29 settembre 1945)

Benedicta 70’anni dopo

Tra le forze partigiane liguri che alla fine del marzo 1944 rendevano insicure ai tedeschi le vie di comunicazione con la valle del Po vi era la terza Brigata «Liguria» e il gruppo «Odino». Il comando tedesco di Alessandria ebbe l’incarico di dirigere e coordinare, in stretta collaborazione con quelli di Genova, Acqui e Ovada, un grande rastrellamento della zona affidato ad un’intera divisione tedesca (ventimila uomini) con aliquote di artiglieria, autoblinde, lanciafiamme ed aerei; ad essa si aggregarono reparti della GNR e delle forze armate di Salò.
. All’alba del 6 aprile le forze nazifasciste si pongono in moto e le colonne sviluppano un attacco concentrico che tende a rinserrare i partigiani in sacche senza via di uscita. La maggior parte dei distaccamenti della Brigata «Liguria», però, dopo alcuni tentativi di resistenza, riesce a filtrare attraverso lo schieramento nemico o ad occultarsi sul luogo, sottraendosi alla distruzione. Non così il gruppo «Odino». Esso aveva stabilito nei pressi di Voltaggio, in un vecchio monastero semidistrutto posto sulla Benedicta, un accantonamento di renitenti fra i quali vi era un centinaio di giovani completamente disarmati. Il mattino .del 7 aprile essi vengono sorpresi e catturati da due colonne di fascisti e di tedeschi. Oltre un centinaio di giovani sono fucilati sul luogo, a gruppi di
cinque per volta, da un plotone di bersaglieri fascisti: il massacro dura fino a tarda sera. Novantasei corpi furono gettati la sera in fosse comuni, molti altri furono trovati insepolti sulla montagna i giorni seguenti. Altri tredici prigionieri furono fucilati a Masone e sedici a Voltaggio.
Un ultimo gruppo, comprendente fra gli altri i comandanti «Odino» e il tenente Pestarino suo aiutante, trasportato a Genova, viene fucilato il 19 maggio al passo del Turchino per rappresaglia. Oltre duecento prigionieri vengono avviati ai campi di concentramento in Germania!’.
Complessivamente i caduti tra partigiani e civili, assassinati sul posto, deportati e poi morti nei lager, furono 305.

Sulla vicenda della «Benedicta» c’è la testimonianza di Luigi Laggetta.

Alla prima chiamata alle armi della RSI risposi andando in montagna il 13 dicembre 1943 con il gruppo della Benedicta: In fabbrica avevo conosciuto operai che erano stati perseguitati dai fascisti e ciò mi aveva indirizzato verso l’antifascismo. Mi dicevano che eravamo sotto una dittatura instaurata da Mussolini nel 1922 dopo aver soppresso la democrazia.

Durante la guerra, ascoltavo «Radio Londra» in casa di un amico. Nel gennaio del 1942 commentammo il blocco dell’avanzata tedesca verso Mosca. In montagna fui mandato da Pietro Gabanizza del Partito d’Azione. Andai in montagna assieme ad un figlio della sua cuoca, di nome Walter Corsi, aggregandomi al primo distaccamento della Brigata «Liguria» sotto il monte Tobbio.
Il gruppo era formato in maggioranza da comunisti; fra cui era Rino Mandorli che mi diede 11 nome di battaglia -Bob». Comandante del gruppo era Ercole Tosi «Ettore». Da 19 quanti eravamoall’inizio raggiungemmo il numero di 800 nei primi mesi del ’44. Fra noi vi erano Giacomo Buranello «Pietro» ed Elio Scano.

Ogni sera Baranello ci faceva scuola di partito. Rino Mandorli «Sergio» aveva 32 anni ed era stato dieci anni in galera per attività antifascista: Con noi c’era anche Goffredo Villa «Ezio» [(1922-1944) medaglia d’argentodella Resistenza) Mandorli fu poi fucilato al passo del Turchino per rappresaglia. Si faceva-una gran fame e come azioni ne ho fatte ben poche. Arrivavano a frotte i giovani renitenti alla leva, in gran parte disarmati; eravamo 7-8 distaccamenti Ricordo che ci fu un lancio degli Alleati che ci procurò 60 Stern.

Nel rastrellamento all’alba del 6 aprile 1944, 96 di noi furono fucilati, mentre 59 vennero fucilati al Turchino per rappresaglia in seguito ad un attentato compiuto al cinema Odeon contro i tedeschi (ne morirono una dozzina). Dopo la rappresaglia venimmo a Genova. Con noi c’era Germano Jori; poi fucilato dai tedeschi. Facevamo azioni come GAP. In una di queste azioni avvenuta il 23 maggio 1944 fui ferito da un fascista e venni curato dalla partigiana Iolanda Cioncolini «Gigia», la quale aiutò moltissimi compagni e fu poi condannata a 25 anni di carcere e deportata a Bolzano, da dove fu liberata il 25 aprile del 1945.
Tornato in montagna, subii i rastrellamenti dell’agosto e del dicembre 1944 e partecipai alla battaglia di Pertuso, in cui era comandante Aurelio Ferrando «Scrivia», e vice-comandante G. Battista Lazagna «Carlo».

Testo tratto da “Vite da Compagni” edizioni EDIESSE

Dopo i tragici fatti della Benedicta e del Turchino la Resistenza seppe reagire e, facendo tesoro anche degli errori commessi riuscì a serrare nuovamente le file e a pochi mesi da quella primavera si ricompose in quei luoghi quella che sarebbe stata riconosciuta come la Divisione Mingo.
Fu tra i partigiani di quella divisione che prese forma una delle canzoni della Resistenza più significative e belle: I Ribelli della Montagna”
Loris

25 aprile – Ne è valsa la pena? Ecco cosa risponde un Partigiano.

 
Nell’aprile 2005, in occasione del sessantesimo anniversario della Liberazione usciva il libro di Clara Causa “Il prezzo della Libertà” Storia della lotta Partigiana a Sestri Ponente.
E’ la Sestri dei Cantieri Navali, dell’Ansaldo, della San Giorgio. E’ la Sestri che difese la sua Camera del lavoro dagli assalti dei fascisti nei primi anni venti. E’ la Sestri Ponente della difesa odierna dei suoi cantieri navali e di una identità industriale radicalmente mutata nel tempo.
L’autrice, a conclusione della narrazione di quei mesi di guerra pone un quesito, che, considerando il percorso politico del nostro paese in questi sette anni , resta di una attualità impressionante, sia nel quesito sia nella risposta di un protagonista di quella lotta partigiana.
Loris


A distanza di sessant’ anni, oggi ci si pone la domanda: “Ne è valsa la pena?”. “Sofferenze, sacrifici, migliaia di caduti, perché? Se tornassero in vita quei poveri ragazzi, lo rifarebbero?”, si chiede il partigiano Augusto Pantaleoni e la sua risposta è sicura e determinata: 
lo sono certo, e sento che potrei urlarlo, che tutto quanto è stato fatto durante la Resistenza, compresi gli errori, non solo è stato giusto, ma era necessario fare. Era nei fatti, era nell’aria, era nella volontà, era nella coscienza dei protagonisti. Era ciò che la Nazione e la popolazione, in quel momento, volevano ed era necessario fare. 
Qualcuno lo chiama “l’esercito partigiano”. Per me è un errore. Esercito è ciò che lo Stato crea in sua difesa, si costituisce con la “cartolina precetto”, mentre noi, senza divisa, eravamo il Corpo Volontari della Libertà. Nessuno aveva ricevuto la “cartolina”, ma tutti si erano presentati volontari. Gli stessi combattenti in divisa, che si batterono al fianco degli alleati, erano volontari, ma si chiamavano CIL (Corpo Italiano di Liberazione) ed ebbero, anche loro, migliaia di caduti. 
Morirono a migliaia, in quei venti mesi di dura lotta, ma ne è valsa la pena? Quale Italia avremmo oggi, se avesse vinto l’esercito tedesco con i suoi alleati fascisti? E i campi di sterminio? E gli eccidi di Marzabotto’, di Boves’, di Sant’ Anna ài Stazzema? Quante località in tutta Europa sono costrette a celebrare i Martiri del Turchino, di Cravasco, di Portofino, della Benedicta? 
Noi con i capelli bianchi, ci ricordiamo di quale democrazia e libertà avevamo negli anni precedenti la guerra, con i fascisti al potere. E ciò spiega il perché, imbracciato il fucile per rispondere all’aggressione tedesca (9 settembre 1943), lo rivolgemmo anche contro coloro, che si ersero a difensori dei tedeschi, per il ritorno a quelle libertà inesistenti nel passato. 
Abbiamo combattuto invano? Sono caduti invano i partigiani e i soldati volontari? 
No. Il loro sacrificio, le loro sofferenze e quelle create ai loro familiari, furono compensate e riconosciute con l’entrata in vigore della Carta Costituzionale (ID gennaio 1948). 
Oggi, c’è chi pensa di cancellare la Costituzione, pezzo per pezzo, per farla passare più facilmente, o gruppi di articoli, per rendere il cambiamento più dolce.
Ma la Costituzione esprime soltanto quello che voleva il popolo italiano, nella grandissima maggioranza dei suoi cittadini, espressa, voluta e combattuta dai suoi volontari.
I partigiani non erano tutti comunisti. Costoro, erano forse la maggioranza, ma vi erano anche gli azionisti, i socialisti, i cattolici, i repubblicani, i liberali. Vi erano le donne, i contadini,lavoratori, gli intellettuali. Vi era il popolo italiano. 
Dopo sessant’anni ormai, di quelli non ce ne sono più. E’ passato il tempo, si può cambiare. E’ troppo comodo. Non è così. Perché ci sono i veri protagonisti: i Caduti . 
Quelli non si possono cambiare. Sono caduti per questa Costituzione. Buranello o Bisagno, il comunista o il cattolico, non volevano solo l’art. 11 contro la guerra, non volevano solo l’art. 3 per il lavoro.
NO. Volevano la Costituzione. Ecco perché ne è valsa la pena’combattere, soffrire e anche morite. Volevano un’Italia diversa, più giusta, dove la solidarietà, la fraternità fossero l’anima dei cittadini. Volevano la libertà, senza la quale non vi è giustizia. 
Infangare la Resistenza è infangare la Costituzione. Toccare la Costituzione è toccare la Resistenza. Adeguare, aggiornare, si, ma non stravolgere ciò che con tanto sangue venne conquistato per il nostro Paese. I Caduti di ogni colore o partito, senza colore o partito, sono i testimoni più vivi, saranno i giudici più fermi nella condanna agli usurpatori. 
Noi ci auguriamo che in questo Sessantesimo Anniversario della Lotta di Liberazione, ancora una volta, la popolazione si esprima, e confermi, come allora, la volontà di libertà, cosi caldamente esaltata in ogni parola dal nostro Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.”


fonte : IL PREZZO DELLA LIBERTA’ (storia della lotta partigiana a Sestri Ponente) di Clara Causa edito da “ANPI Associazione Nazionale Partigiani D’Italia – sezione di Sestri Ponente”




ps. Nel luglio 2012 “Cina” ci lasciava e di lui c’è questa ulteriore testimonianza su “La Resistenza Sestrese”

Se di Foibe bisogna parlare

Già tra il 1919 ed il 1922 i fascisti, finanziati dalla destra economica, incoraggiati dall’alta burocrazia civile e militare, aizzati dalle campagne provocatrici e sciovinistiche del quotidiano “Il Piccolo” compiono decine di azioni squadristiche contro centri culturali e politici di tutta la “Venezia Giulia”, incendiando e distruggendo sedi, redazioni di giornali, tipografie; aggredendo, picchiando ed anche uccidendo militanti politici. Vi furono violenze anche contro scolaresche, come la strage di Strunjan-Strugnano quando il 19 marzo 1921 i fascisti, tra Isola e Pirano, spararono da un treno in corsa su di un gruppo di bambini intenti a giocare, uccidendone due,  ferendone gravemente altri cinque, due dei quali rimasero invalidi per tutta la vita.

Alla fine di queste “operazioni” si ebbe la chiusura di quasi mille circoli, tra culturali, sportivi, assistenziali, e moltissimi dei beni, confiscati, venivano assegnati ad associazioni fasciste. Nella maggior parte dei casi neanche queste sedi sono mai state restituite dallo Stato italiano, “nato dalla Resistenza”, agli aventi diritto.

Dopo la presa del potere da parte del fascismo, nel 1922, le violenze divennero anche “legali”: dal 1926, con l’entrata in vigore delle “Leggi Speciali per la difesa dello Stato” e poi dal 1931 con il codice Rocco e le sue leggi di polizia, la soppressione della stampa d’opposizione e lo scioglimento di tutti i partiti.

Il 6 aprile 1941 l’Italia aggredisce proditoriamente la Jugoslavia e la occupa, creando la “Provincia di Lubiana”, ed arrestando numerosi esponenti antifascisti sloveni, originari delle province di Trieste e Gorizia, che erano stati costretti all’esilio dalla repressione fascista. L’occupazione della Provincia di Lubiana, durata 29 mesi, fu contrassegnata da particolare durezza.

Subito dopo l’8 settembre 1943 le truppe partigiane dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo presero possesso di una parte del territorio istriano. Il potere popolare durò una ventina di giorni, un mese in alcune zone: poi i nazifascisti ripresero il controllo su tutta l’Istria. Dai giornali dell’epoca leggiamo che l’“ordine” riconquistato costò la vita di 13.000 istriani, nonché la distruzione di interi villaggi. Nel contempo i servizi segreti nazisti, in collaborazione con quelli della R.S.I., iniziarono a creare la mistificazione delle “foibe”: ossia i presunti massacri che sarebbero stati perpetrati dai partigiani.

In realtà dalle “foibe” istriane furono riesumati, nell’inverno 1943-1944, circa 300 corpi di persone la cui morte potrebbe essere attribuita a giustizia sommaria fatta dai partigiani nei confronti di esponenti del regime fascista (ma per alcune cavità si sospetta che vi siano stati gettati dentro i corpi dei morti a causa dei bombardamenti nazisti). Però basta dare un’occhiata ai giornali dell’epoca ed agli opuscoli propagandisti nazifascisti per rendersi conto di come l’entità delle uccisioni sia stata artatamente esagerata per suscitare orrore e  terrore nella popolazione in modo da renderla ostile al movimento partigiano. Esempio di questa manovra è la  pubblicazione di un libello dal titolo “Ecco il conto!”, pubblicato sia in lingua italiana che in lingua croata, contenente alcune foto di esumazioni di salme e basato fondamentalmente su slogan anticomunisti.

Scrive Galliano Fogar: «II 7 ottobre (1943, n.d.a.) Berlino annuncia la conclusione dei

rastrellamenti “nella regione di Trieste da parte delle truppe tedesche e di reparti fascisti: sono stati contati i corpi di 3.700 banditi uccisi. Altri 4.900 sono stati catturati fra cui gruppi di ufficiali e soldati badogliani”. Un comunicato del 13 afferma che la “pace” è stata raggiunta grazie a più di 13mila banditi uccisi o fatti prigionieri… A parte la gonfiatura propagandistica delle cifre, il numero delle vittime è stato altissimo e fra esse buona parte è di inermi civili.(…) “L’impeto dei tedeschi è meraviglioso” commenta il quotidiano triestino “Il Piccolo”. Raccontando l’odissea di un gruppo di prigionieri liberati dall’intervento germanico, il cronista rileva che gli scampati, mentre si dirigono verso Trieste, possono constatare che “ogni casa ha uno straccetto bianco di resa e tutti i rimasti salutano romanamente chiedendo pietà” (questo si riferisce alla zona di Pinguente, in Istria, n.d.a.). Dopo il passaggio delle truppe tedesche, il giornale riferisce che è tornata la tranquillità e giustifica lo strazio della cittadina di Pisino, osservando che “dure misure sono state provocate” dalla resistenza dei partigiani…».

Nella provincia di Trieste furono bruciati per rappresaglia i paesi di Mavhinje-Malchina, Čerovlje-Ceroglie, Vižovlje-Visogliano, Medjevaš-Medeazza, Mačkovlje-Caresana, Gročana-Grozzana.

Un’intervista a Alessandra Kersevan (10,45 minuti):

da contromaelstrom.com

Forse si dovrebbe chiamare giornata della dimenticanza.

Paola Mangano

MEMORIA

“…..se non sono riuscita a commentare il tuo post dell’ANPI…non l’ho fatto, non perché insensibile ed estranea a quei tragici fatti ma perché io stessa coinvolta…mio padre che operava con una formazione partigiana è stato fucilato con altri suoi compagni dai nazisti il 17/12/44 a Pornassio (IM) e quindi solo un mese prima che la stessa sorte toccasse a quei poveri giovani nominati nel tuo post….anche il nome di mio padre lo puoi trovare inciso nella lapide sotto il ponte monumentale…si chiamava Fulvio, come il maggiore dei miei figli….”

le famose fucilazioni del panino e mela , tipiche della macabra fantasia di Spiotta e Basile mio padre fu prigioniero per una settimana a Chiavari dove Spiotta aveva il suo “ufficio” mi raccontò alcune cose che vide e soprattutto sentì, ma mi raccontò molto poco, voleva rimuovere,e lo capisco, anche se non dimenticare è troppo importante.”

Penso a mio padre e ai suoi compagni,lui che fu arrestato portato alla casa dello studente, poi a Marassi,portato via da Genova alla vigilia della liberazione, e riuscito a riportare la pelle a casa, non si sa come, come mi diceva lui…”

Nella Lapide c’è mio cugino 19 anni…”

Sono le nostre radici e non x questo non guardiamo al futuro anzi. Ma é dà li che veniamo. Tutti i sestresi hanno partecipato alla liberazione e noi siamo figli e nipoti di quei ragazzi

 rescont

Sono voluto partire dai commenti di un post che annunciava la commemorazione di vittime del nazifascismo. Sono ricordi che si incastrano uno dentro l’altro, ricordi acquisiti con modalità diverse, ricordi vissuti con coinvolgimenti e drammaticità diverse.

L’insieme di questi ricordi diventa memoria collettiva esattamente come la morale collettiva sta all’etica.

Il nostro essere soggetti all’interno di un contesto sociale, famiglia,scuola. ….paese ci impone il dovere di farci interpreti e strumento di questa memoria, in quanto in essa c’è l’espressione del contenuto su cui è stato fondato Lo Stato Italiano dopo le barbarie del nazifascismo.

Chi è senza memoria non ha futuro e credo che nonostante la realtà politica e morale che ci circonda, proprio perchè la memoria ci riporta a quell’esercito di persone normali ma in grado di sacrificare la propria vita per gli altri, il futuro possiamo essere ancora in grado di scriverlo noi.

Mi sono commosso leggendo in particolare uno di questi commenti, in cui una figlia da il nome del padre fucilato al proprio figlio, proprio per affermare quella continuità tra generazioni.

Il post è tratto da un libro: “la Resistenza Sestrese” di Clara Causa che è nata a Genova il 3 agosto 1945 ed è figlia del Partigiano Emanuele Causa ucciso a Portofino il 2 dicembre 1944.

Loris

La ferocia nazifascista rivelò, nell’ eccidio di Piazza Baracca, tutta la sua macabra fantasia.
“Il 16 Gennaio 1945, nelle primissime ore del mattino, Rinaldo Bozzano e Giuseppe Canepa vennero prelevati insieme a Sandro Maestri e Alfonso Ferrari di Savona, Commissario della Brigata Bonaria. Trasportati a Sestri, furono trucidati, dopo essere stati vilmente ingannati da una falsa liberazione:
*Canepa, invitato ad andarsene, venne raggiunto da una raffica di mitra nei pressi dell’ attuale negozio dei formaggi.
* Maestri tentò di allontanarsi, ma fu ucciso tra la Pasticceria Dagnino e l’edicola dei giornali.
*Bozzano venne ucciso tra i binari del tram, davanti all’ edicola dei giornali, ma prima, ebbe modo di gridare il proprio disprezzo agli esecutori, dicendo che preferiva morire, piuttosto che tradire i compagni. Evidentemente, ciò gli fu richiesto durante gli interrogatori.
*Ferrari venne ucciso nei pressi del negozio di fiori, accanto all’Oratorio.
Il comportamento stoico di Bozzano fu confermato dal Comandante delle brigate nere di Sampierdarena, Franchi, catturato dai partigiani durante l’Insurrezione.
Così quella mattina, una fredda mattina invernale, grigia, resa ancora più buia dall’oscuramento imposto dallo stato di guerra, i primi operai, passando per Via Garibaldi, odierna Via Sestri, arrivati in Piazza Baracca, trovarono la macabra sorpresa: quattro giovani corpi, stesi a terra, con accanto un panino ed una mela. ”
“Quest’ultimo particolare, sul quale non si ebbe mai alcuna spiegazione ufficiale, anche perché le autorità fasciste insistettero nella loro estraneità a queste morti, che pure risultavano persone risultanti in loro mani, può essere spiegato col fatto che, fornendo alle vittime un pasto, sia pure modesto, da consumare nel corso di un ipotetico viaggio, si rendeva più credibile l’ipotesi di un trasferimento, che avrebbe indotto alla calma le vittime stesse, almeno sino al luogo dell’ esecuzione.”
“Si tentò di far passare questi poveri giovani come dissidenti dal Movimento e quindi vittime dei loro stessi compagni di lotta, mentre, al contrario, erano stati prelevati dalle carceri, trasportati in autocellulare nei punti più disparati della periferia e del centro cittadino per esservi uccisi dai militi delle brigate nere, a ciò incaricati dalla Federazione del fascio genovese, così come – per ammissione di Vito Spiotta – era accaduto per i 21 di Portofino. Due crimini che per le loro spaventose analogie denunciavano la stessa satanica, documentabile, ispirazione. Essi ripetevano sostanzialmente la ferocia del massacro compiuto il 19 Maggio al Passo del Turchino, quando ben 59 cittadini, prelevati dalle carceri nazifasciste genovesi, caddero, ad uno ad uno, falciati dalla mitraglia, sotto gli occhi dei compagni ancora vivi, rotolando, morti o feriti, lungo il verde pendio in una sottostante fossa nella quale sarebbero stati schiacciati da un’enorme roccia o da poca impietosa terra.”
fonte “La Resistenza Sestrese”

Sestri