Quel 16 Giugno del 1944
E’ il primo pomeriggio del 16 giugno 1944 e sono appena terminate le lezioni all’ANCIFAP di Sestri Ponente.
Uno dei ragazzi, che abita a Bolzaneto, è appena uscito dalla scuola e cerca di raggiungere un tram fermo a poca distanza, ma si accorge immediatamente di una situazione di pericolo: i Soldati Tedeschi stanno bloccando le strade e le possibili uscite alla fabbrica San Giorgio di Sestri, rastrellando gli operai di quell’ azienda per destinarli al lavoro forzato nei campi di concentramento tedeschi.
Il ragazzo intravede una sola possibile via di fuga: cercare di salire sul tram fermo, la cui coda è però pericolosamente vicina ai Soldati Tedeschi.
Sale, allora, velocemente dalla porta anteriore, ma qui riceve una doccia fredda :
“ Scendi! E risali dalla porta posteriore!” gli grida in faccia il conducente del tram.
“Ma… non è possible… se scendo I tedeschi mi catturano!” replica il ragazzo
“Non è un problema mio! il regolamento dice chiaramente che si sale dalla porta posteriore”, replica inflessibile il conducente.
Sono attimi di panico e di tensione su quel tram, quando, improvvisamente, accade l’imprevisto.
Ecco che si materializza la figura di un uomo in divisa, non si sa se era già presente sul tram o se era appena salito … e chi ha raccontato la storia non ricorda se fosse un vigile, un metronotte o altro. L’uomo in divisa si avvicina al conducente, estrae la pistola e gli intima di partire immediatamente se gli era cara la vita.
Il tram partì e il ragazzo fu salvo, anche se alle sue spalle rimanevano prigionieri dei nazisti 1488 lavoratori.
Gli operai fatti prigionieri vengono portati con camion e autobus allo snodo ferroviario di Campasso e da li caricati su carri merci per il viaggio verso Mauthausen.
Saranno 43 i vagoni adibiti al trasporto di questi uomini.
Nel frattempo, si è diffusa la voce e molte donne genovesi si riversano sulla linea ferroviaria nel tentativo di fermare quella deportazione, ma vengono respinte con brutalità dalla canaglia tedesca.
Così a loro resta il compito di raccogliere I messaggi fatti scivolare fuori dai prigionieri con i dati di ognuno, affinché diventi possibile avvertire I famigliari sulla loro sorte.
Anche a Bolzaneto è giunta la notizia dei treni carichi di operai e una madre, che sta proprio di fronte alla stazione, ha il forte timore che pure suo figlio sia su uno dei 43 vagoni. Mette insieme un po’ di capi di vestiario, qualcosa da mangiare e si precipita verso i vagoni che stanno per transitare.
Il ragazzo che a Sestri era riuscito a prendere il tram, sfuggendo per miracolo alla cattura, nel frattempo è sceso dal mezzo e velocemente si incammina verso casa quando, guardando la ferrovia vede sua madre che lo sta cercando sui vagoni.
La chiama, si vedono!
La madre comprende che il figlio è salvo e in quel momento diventa la madre di tutti quelli che sono sui vagoni, distribuendo loro quello che ha, sapendo che dovranno affrontare un lungo e terribile viaggio da cui molti non faranno ritorno.
Il racconto è reale e frutto della memoria della mia famiglia: il ragazzo era mio padre e mia nonna la madre in attesa.
Anche se apparentemente è una storia semplice, senza eroi, ci lascia, in realtà, un grande insegnamento attraverso i momenti e i protagonisti che la caratterizzano:
1) la scelta : sul tram in cui mio padre salì per sfuggire al rastrellamento, le due figure principali sono il conducente e l’uomo armato. Nel conducente si delinea una figura che incarna la filosofia del “tirare a campare e farsi I fatti propri”, del non compiere scelte appellandosi ai regolamenti fatti da altri, configurando pienamente la complicità morale ed etica al fascismo e a tutto quello che significò.
L’uomo in divisa armato invece è l’esempio della scelta. Sono coloro che non hanno esitato a compiere una scelta di campo, anche a costo della propria vita. Sono coloro che hanno restituito dignità a tutti gli italiani. Sono coloro che o sui monti o nelle città, nelle fabbriche organizzarono e praticarono la Resistenza al nazifascismo.
2) Le donne: le donne sono fondamentali in questa vicenda, come in tutta la storia della Resistenza . Pronte a mettersi in gioco nel cercare di bloccare I treni, saranno sempre un supporto incrollabile per gli uomini che avevano fatto la scelta della Resistenza.
3) Mia nonna infine, che con la morte nel cuore cercava suo figlio sui carri e improvvisamente lo vede arrivare libero e incolume. Compie pure lei una scelta, non sono tempi buoni, I vestiti costano il lavoro è precario e sempre più spesso bisogna ricorrere alla borsa nera per generi di prima necessità. Comprende che su quei vagoni sono tutti figli suoi, e per loro il futuro sarà incerto. Dona tutto quello che ha tra le mani a quei poveri disgraziati che sono in viaggio.
Ci insegna la solidarietà. La stessa solidarietà dei contadini nei confronti dei partigiani o di coloro che diedero protezione agli ebrei dopo la promulgazione delle leggi razziali. Senza la solidarietà la Resistenza non si sa quanto sarebbe durata e la vittoria non sarebbe stata scontata.
Il racconto è dedicato a quei 1488 lavoratori che pagarono con la deportazione il prezzo delle rivendicazioni sindacali che nel 1943/44 rappresentarono la Resistenza dei lavoratori genovesi al nazifascismo. Senza quel tipo di Resistenza di massa e popolare non sarebbe stato possibile raggiungere la vittoria finale nell’aprile del 1945, vittoria che trovò, grazie ai lavoratori che le avevano protette dalle razzie tedesche, le fabbriche operative e pronte a continuare a produrre e dare occupazione.
Loris
Dopo l’11 febbraio a Sturla contro le destre neonaziste alcune riflessioni.
Fatto salvo quanto detto sopra però alcune questioni ritengo doveroso porle: necessitava un Ministro degli interni del PD per consentire alla destra xenofoba, negazionista e razzista di venire sfidando, a Genova? Se quelle migliaia di persone sfilavano invocando l’applicazione della legge Scelba e la più recente Mancino, cos’ha tutelato il ministro non impedendo un evento sia pubblico che in privato in osservanza delle suddette leggi? Alcune Questure di frontiera come a Ventimiglia allontanano attiviste no borders che danno consulenza legale ai migranti definendole “pericolose per l’ordine e la sicurezza pubblica”. Quanto pericolosi sono per l’ordine e la sicurezza pubblica loschi figuri che sono antitetici ai valori fondanti della nostra Costituzione o negazionisti nei confronti dei crimini commessi dai nazisti nel secondo conflitto mondiale.
E’ talmente debole e irriverente nei confronti della città Medaglia d’oro al valor militare della Resistenza la posizione del Ministro, del Governo e conseguentemente gli organismi territoriali rappresentanti il governo che quello che doveva essere un evento “privato” grazie alla nostra “televisione di Stato” che si è prodigata nei servizi in casa dei fascisti facendo diventare a tutti gli effetti l’evento pubblico. Un emblematico esempio di tv spazzatura!
Camilla Ravera racconta – 8 marzo – Giornata Internazionale della Donna – Perché non è una festa
La tradizione popolare racconta che l’8 marzo 1908 Mr. Johnson , proprietario dell’industria “Cotton” chiude a chiave all’interno della sua azienda le lavoratrici impegnate in una rivendicazione sindacale e che un incendio farà perire, arse vive, 129 lavoratrici. Ricerche negli archivi di quel tempo non avvalorano questa storia. Alcuni anni dopo, il 25 marzo 1911, alla Triangle Shirtwaist Company, situata nel cuore di Manhattan, che produce abbigliamento, un incendio causa la morte di 146 operai della Triangle, in gran parte giovani donne immigrate di origini italiane ed ebree, prevalentemente di età compresa fra i 13 e i 22 anni. In diversi paesi, ci furono in quegli anni iniziative che cercavano di mettere al centro la questione femminile ma in date diverse dall’8 marzo a secondo dei paesi e dai gruppi organizzati femminili. L’8 marzo 1917 a San Pietroburgo una grande manifestazione di donne chiedeva con forza la fine della guerra. Quella manifestazione e successive determineranno il crollo del regime zarista. Per questo motivo, il 14 giugno 1921, la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste, tenuta a Mosca, su proposta di Rosa Luxemburg fissò all’8 marzo la «Giornata internazionale dell’operaia», trasformata in:“La Giornata Internazionale della Donna.”
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Camilla Ravera
Fonte Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
8 marzo – Donne e Costituzione
Il 2 giugno 1946 il suffragio universale e l’esercizio dell’elettorato passivo portarono per la prima volta in Parlamento anche le donne. Si votò per il referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente che si riunì in prima seduta il 25 giugno 1946 nel palazzo Montecitorio.
Su un totale di 556 deputati furono elette 21 donne: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e 1 dell’Uomo qualunque.
Alcune di loro divennero grandi personaggi, altre rimasero a lungo nelle aule parlamentari, altre ancora, in seguito, tornarono alle loro occupazioni. Tutte, però, con il loro impegno e le loro capacità, segnarono l’ingresso delle donne nel più alto livello delle istituzioni rappresentative.
Donne fiere di poter partecipare alle scelte politiche del Paese nel momento della fondazione di una nuova società democratica.
Per la maggior parte di loro fu determinante la partecipazione alla Resistenza. Con gradi diversi di impegno e tenendo presenti le posizioni dei rispettivi partiti, spesso fecero causa comune sui temi dell’emancipazione femminile, ai quali fu dedicata, in prevalenza, la loro attenzione.
La loro intensa passione politica le porterà a superare i tanti ostacoli che all’epoca resero difficile la partecipazione delle donne alla vita politica.
A queste donne, oggi 8 marzo, rivolgiamo un grato ricordo, con la volontà di riaffermare tutti i valori espressi nella nostra Carta Costituzionale
Adele Bej
(Cantiano, 4 maggio 1904 – Roma, 15 ottobre 1976), è stata una sindacalista e politica italiana, membro dell’Assemblea costituente, senatrice e deputata del Partito Comunista Italiano
Nadia Gallico Spano
(Tunisi, 2 giugno 1916 – Roma, 19 gennaio 2006) è stata una politica italiana, membro dell’Assemblea costituente italiana e deputato del Partito Comunista Italiano.
Angiola Minella,
(Torino, 3 febbraio 1920 – Torino, 12 marzo 1988), membro dell’Assemblea costituente italiana e parlamentare del Partito Comunista Italiano è stata una partigiana e politica italiana, esponente del PCI.
Teresa Noce
(Torino, 29 luglio 1900 – Bologna, 22 gennaio 1980) membro dell’Assemblea costituente è stata una partigiana, politica,antifascista italiana, parlamentare del Partito Comunista Italiano
Elettra Pollastrini
(Rieti, 15 luglio 1906 – Rieti, 2 febbraio 1990) membro dell’Assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare del Partito Comunista Italiano.
Elisabetta Conci (detta Elsa)
(Trento, 23 marzo 1895 – Mollaro, 1º novembre 1965) membro dell’assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare della Democrazia Cristiana
Angela Maria Guidi
(Roma, 31 ottobre 1896 – Roma, 11 luglio 1991) membro dell’assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare della Democrazia Cristiana
Maria Nicotra Verzotto
(Catania 6 luglio 1913 – 15 luglio 2007) membro dell’assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare della Democrazia Cristiana
Angelina Merlin (Lina)
(Pozzonovo, 15 ottobre 1887 – Padova, 16 agosto 1979)
membro dell’assemblea costituente è stata una politica e partigiana italiana, parlamentare del Partito Socialista
Ottavia Penna
(Caltagirone, 12 aprile 1907 – 2 dicembre 1986) membro dell’assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare del Fronte dell’Uomo Qualunque
Analisi del 2015
I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2015 per questo blog.
Ecco un estratto:
Un “cable car” di San Francisco contiene 60 passeggeri. Questo blog è stato visto circa 1.200 volte nel 2015. Se fosse un cable car, ci vorrebbero circa 20 viaggi per trasportare altrettante persone.
Ventimiglia, resistere nel 2015
A Ventimiglia, al confine con la Francia, è accaduto e sta accadendo qualcosa di insopportabile, per la coscienza e per la politica. L’immagine che pubblichiamo si riferisce ai momenti, carichi di tensione, in cui le forze dell’ordine sono intervenute per sgomberare i profughi. Mentre prepariamo il prossimo Corriere delle Migrazioni, che in larghissima parte sarà dedicato ai profughi e alla morte del diritto d’asilo in Europa, vi proponiamo la testimonianza di Alessandra Ballerini, l’avvocata-attivista che scrive spesso per noi. Alessandra era a Ventimiglia.
«Manca all’appello ancora l’ultimo treno, quello delle 23, e i profughi in stazione a Ventimiglia sono già almeno 400. Sudanesi, etiopi, eritrei, ghanesi, profughi del Togo, del Mali e della Guinea, tutti approdati sulle nostre coste nei giorni scorsi. La nostra piccola Africa ligure.
Tra loro, numerose donne anche giovanissime, stremate, stese per terra con occhi e corpi quasi inermi. Bellissime, nonostante tutto. Le osservi e ti domandi quanto sarà costata loro, nelle notti di prigionia in Libia, la loro bellezza acerba e indifesa, la loro solitudine, la loro determinata fragilità.
Vagano nella piazza antistante la stazione anche tantissimi ragazzini, “minori stranieri non accompagnati”, come vengono definiti col linguaggio tecnico dei giuristi. E anche dei bimbi piccoli. Nessuna traccia dei venti minori afghani che lunedì scorso erano comparsi in stazione.
Mi avvicino all’uniforme che, tra le tante presenti, annoiate e distratte, mi sembra più affabile e attenta. Gli chiedo informazioni sulla situazione. Lui è gentile e preparato. Esclude che i colleghi francesi abbiano notificato qualsiasi sorta di atto ai profughi respinti di fatto molto più che di diritto, alla frontiera di Mentone. Non crede comunque che lagendarmerie abbia usato la forza contro i migranti, basta la minaccia esplicita del loro schieramento lungo la strada. Un confine di uomini, anzi di divise.
Mentre parla s’indigna. «Queste sono persone che chiedono asilo – mi dice mentre una bimba eritrea di neppure due anni gli gira intorno – e non clandestini, come vengono chiamati dai giornalisti».
Io sgrano gli occhi, sorpresa nei miei pregiudizi da un’analisi così precisa e, visti i tempi, affatto banale. Lui si accorge del mio stupore e immediatamente aggiunge: «io porto questa divisa per difendere la democrazia nel mio paese, per tutelare lo stato di diritto. Un po’ come lei che fa l’attivista». Io veramente mi ero presentata come avvocata consulente di diverse associazioni umanitarie, ma lui da bravo “sbirro”, mi ha subito calato la maschera.
Mi siedo. Sull’aiuola, insieme ai migranti. Scambiamo con loro pochissime parole. Sono troppo stanchi, non voglio sottoporli anche al mio, seppure benevolo, interrogatorio, che si sommerebbe a quelli più implacabili dei tantissimi giornalisti presenti e armati di microfoni e telecamere.
Serena, l’operatrice della Caritas, si siede accanto a me e mi presenta alcuni richienti asilo conosciuti nei giorni precedenti. Mi mostrano i segni della scabbia. All’inizio fa come una S bianca sul polso, mi spiegano, e ripenso immediatamente a una frase geniale scritta su fb come risposta dissacrante contro gli idioti allarmisti che urlano all’untore: “ho scritto t’amo sulla scabbia”.
E poi prude tra le dita, mi raccontano. Nulla di terribile o inguaribile. Basta una pillola o una pomata e passa in tre giorni.
Si potesse fare lo stesso con la scabbia ben peggiore e decisamente più contagiosa e resistente del razzismo!
Mi sposto lungo la linea di passaggio con la Francia per capire, ancora una volta, come i diritti si possano sospendere con il semplice uso della forza.
Il “confine” è presidiato dalla gendarmerie. I respingimenti sono sommari, collettivi e informali. Pare non vengano notificati atti nè fornite spiegazioni o tantomeno ascoltate istanze. Agli agenti francesi basta agitare il manganello e il respingimento è fatto. E non risparmia nessuno neppure donne incinte o minori. La croix rouge sta al di qua del confine, in suolo italico, come a dire che soccorsi in Francia non se ne danno perchè in Francia è di fatto vietato ai profughi posare il piede. E cosi una parte di loro si assiepa sugli scogli e aspetta. Che le cose cambino, che le guardie si distraggano. che i diritti vengano ristabiliti. Ma non succede. Da giorni non succede nulla.
E cosi i profughi fanno avanti e indietro tra la stazione e gli scogli/confine. Sei chilometri all’andata e sei al ritorno. A volte, come in queste ore domenicali, sotto l’acqua, spesso sotto il sole cocente. Di sera si torna in stazione a prendere il pasto distribuito dai volontari della caritas e dalla crocerossa e poi a dormire dentro la stazione o sul piazzale antistante.
A Ventimiglia infatti non è stato ancora allestito alcun rifugio sicuro, da poco sono state montate delle docce e ai pasti pensano i volontari. Nessuno pensa alla salute e neppure chiamando il 118 si è ottenuto l’intervento di personale sanitario. Domenica le autorità avrebbero dovuto decidere quale immobile destinare a rifugio di queste persone esposte, oggi, pure alle scorribande di xenofobi francesi e nostrani e a fragorosi acquazzoni, ma ancora non sembra essersi trovata un soluzione neppure provvisoria.
La stazione intanto è presidiata da un’indifferente polizia italiana e nessuno viene identificato nè condotto in commissariato per l’identificazione.
Chi offre loro ascolto, vestiti ,medicine e cibo non ha bisogno di prendere le impronte per sapere chi sono, a loro basta guardarli negli occhi.
E quegli occhi ogni ora che passa si moltiplicano: lunedi sera i profughi sono circa 600 e tra loro sempre più minori e almeno venti tra neonati e bambini piccoli; intanto fortunatamente in stazione hanno aumentato gli spazi a disposizione dei profughi.
I giornali più gentili li chiamano transitanti: in realtà non transitano, non vagano, non invadono e non contagiano, semplicemente si ostinano, seppure sempre più stanchi, a esistere e a resistere, nonostante le nostre procedure ottuse e ingiuste, come il regolamento Dublino, o crudeli e fallaci, come la mancata previsione dei canali umanitari, nonostante i nostri confini e le nostre paure (prima tra tutte quella di dover scoprire che a vivere in un paese in pace non c’è alcun diritto ma solo immeritata fortuna).
Non transitano, semmai vengono loro malgrado allontanti, trasferiti, respinti.
Come succede anche oggi, che è già martedi, con la nostra polizia che decide inopinatamente di trascinare a forza un gruppo di profughi presenti al confine, verso la stazione. Un’operazione violenta nella sua assoluta insensatezza e umiliante per chi la subisce come per chi la esegue.
In stazione intanto gli instancabili volontari tornano a distribuire cibo e consigli anche ai nuovi giunti tra i quali una dozzina di giovanissimi afghani.
Respinti ma decisamente non vinti.
Ecco si, sono giorni che cerco la parola esatta per descriverli, questi giovani esuli, scacciati da tutti, esclusi dai diritti che pure si dicono inviolabili e universali, esausti di fughe, soprusi e umiliazioni, li guardi negli occhi e la parola che sale alle labbra, è invincibili, come gli eroi.
Alessandra Ballerini
fonte:http://www.corrieredellemigrazioni.it/2015/06/16/ventimiglia-resistere-nel-2015/
Dal cyberfemminismo al postumano
“Il cyberfemminismo è anche una lotta per accrescere la consapevolezza dell’impatto provocato dalle nuove tecnologie sulla vita delle donne, e sulle insidie delle divisioni di genere della tecno cultura nella vita quotidiana. Il cyberspazio non esiste in un vuoto, ma è intimamente connesso alle numerose istituzioni del mondo reale e ai sistemi che fioriscono sulle divisioni e le gerarchie di genere” (CAE e Faith Wilding, Notes on the political condition of cyberfeminism)
La situazione socio-politica degli ultimi anni ’80 innescò una riflessione sull’impatto delle innovazioni nelle telecomunicazioni e nella micro-elettronica.
Donna Haraway, classe 1944, biologa, filosofa e ora Professore Emerito di Storia della Consapevolezza in California, iniziò in quegli anni ad occuparsi del rapporto tra il pensiero, le attività femminili e le nuove tecnologie. Nel 1991 pubblicò il saggio “Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature”, tradotto in italiano come “Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo”. Con un linguaggio dirompente e visionario, proponeva un’alternativa futurista, immaginando assemblaggi di corpi con innesti di hardware da cui sarebbero scaturiti tecnomostri mitologici. In parte esseri umani e in parte robot, ma senza il marchio del genere sessuale. In poco tempo il pensiero del Manifesto cyborg si diffuse in tutto il mondo e le cyberfemministe fecero breccia nell’immaginario tecnologico, dominio tradizionalmente maschile, resettando i codici culturali, destrutturando i canoni estetici e soprattutto scatenando la creatività.
Un collettivo di videomaker e fotografe australiane militanti tra il 1991 e il 1997 fondò il collettivo VNS Matrix, presentandosi come «il virus del nuovo disordine mondiale, le terminator del codice morale». La novità stava nella tecnofilia che permeava le azioni e i proclami del gruppo, intento a dirottare i giocattoli dei tecnocowboys e rimappando il cyberspazio servendosi di quegli stessi giocattoli tecnologici.
L’opera più nota del gruppo, All New Gen (1994) è un gioco interattivo che funziona come una parodia dei giochi vai e uccidi, in cui il partecipante deve sabotare la banca dati del Big Daddy Mainframe con l’aiuto delle DNA Sluts, una sorta di supereroine ibride con laser che sparano dai genitali. L’obiettivo era riuscire a riprogrammare il codice patriarcale tramite la diffusione del virus del nuovo disordine mondiale. Julianne Pierce, a diversi anni di distanza dallo scioglimento del gruppo, dichiarò: “Dietro il divertimento c’era soprattutto il desiderio di lottare per un maggiore coinvolgimento delle donne nella datasfera… ecco dove interviene il cyberfemminismo… Si tratta di diventare attivi e promuovere il cambiamento, se necessario in modo anche aggressivo. VNS Matrix non era per il separatismo, era perché si riconoscesse che la cybersfera non è uno spazio neutro, ma di privilegio politico e culturale.”
La rivendicazione dell’esperienza corporea e della sessualità femminile delle VNS Matrix ricorda quanto era già accaduto alla fine degli anni ‘60, con fenomeni come quello della cunt art (arte vaginale) e della goddess art (arte delle divinità femminili).
In Italia, il gruppo Cromosoma X rispose con il magazine Fikafutura ricco di argomentazioni che spaziavano dall’arte alla politica, sempre improntate di umorismo e sano cinismo uterino, come il grandioso fumetto “Feti in Faccia“. Ovunque nel mondo, studiose, attiviste e artiste (da Sadie Plant a Rosi Braidotti, dalle Guerrilla Girls alle SubRosa) si confrontarono con le tecnoscienze, per disintegrare i ruoli femminili. Tutti movimenti pochissimo conosciuti e che varrebbe la pena approfondire. Pensandoci bene è possibile, se non più che probabile che il loro tanto dirompente quanto sotterraneo loro agire abbia permesso a una come me di potermi esprimere in tutti i modi che ho sperimentato in questi anni.
Fondamentalmente i temi che avvicinavano tutte le attiviste e che sono ancora attuali sono quesiti come “Le nuove tecnologie, in particolare Internet, modificano la rappresentazione che le donne danno di sé?” e “In che modo il Web può contribuire a veicolare una immagine della donna affrancata dai vecchi stereotipi?”.
Le esponenti del cyberfemminismo furono tra le prime a riconoscere le potenzialità di questi strumenti, ma anche il pericolo in essi nascosto. L’obbiettivo primario fu quello di avvicinare le donne alle nuove tecnologie, affinché non ne fossero escluse e non restassero solo semplici spettatrici ma soggetti attivi in grado di creare nuove informazioni da diffondere nella rete e conseguentemente nel mondo.
Vent’anni dopo le technodiscepole la celebrano a modo loro: vedi Make More Monsters di Deborah Kelly (all’Artspace di Sidney), una serie di animazioni digitali, create insieme al pubblico, in cui gambe femminili sorreggono teste di mantide assassina.
Le cyberfemministe continuano a esistere nell’ombra del cyberspazio in quella che io ormai definisco la nuova realtà. Che ci piaccia o no tutta la nostra vita si sta trasferendo nel web, la politica, la finanza, guerre e rivoluzioni, persino i sentimenti primari dell’uomo; amore e odio per non parlare del sesso. Noi stessi con i nostri blog, profili e quant’altro ne facciamo già massicciamente parte. Il postumano è iniziato.
Paola Mangano
Fare Outing con l’arte
“Con il vostro telefono, fotografate ritratti di persone anonime sui muri dei musei, stampateli e trasferiteli sui muri della strada. Nessuno li guarda davvero nelle loro cornici.
Piccoli. Secondari. Dimenticati. Decisamente anonimi. Quasi morti.
Riportiamoli in vita nel nuovo mondo. Dove ora hanno tutto il tempo per guardaci.”
Si presenta così il progetto Outing nato dall’idea del creativo francese Julien de Casabianca che già sta raccogliendo numerose adesioni da tante città europee e del mondo.
La finalità è quella di rendere i capolavori dell’arte, in particolar modo ritratti di personaggi anonimi dimenticati, fruibili e visibili da tutti facendoli uscire dai soliti ambienti museali per trasferirli direttamente sulle nostre strade.
Così se stiamo visitando una mostra e un dipinto cattura la nostra attenzione possiamo fotografarlo, se la prospettiva è distorta correggerlo per esempio con photoshop trasformandolo in formato CMYK (che è quello usato per la stampa), e se non siete in grado di stamparlo da soli potete inviare lo scatto modificato ad Outings che provvederà a farlo per voi (per una cifra che va dai 20 ai 40 dollari) per consentirvi di affiggerlo sui muri della città.
Qualcuno si chiederà se l’operazione è legale. Pare che la colla con cui vengono fatti aderire ai muri non danneggi le superfici. Per essere più sicuri di non essere perseguiti si possono cercare pareti non particolarmente curate. Tutte le informazioni specifiche vengono rilasciate sul sito ad esso dedicato Outings Project.
Se volete vedere quelli realizzati fino ad ora andate nella pagina galleries dove troverete una mappa interattiva che segnala i vari siti in giro per il mondo.
Oltre a portare l’arte allo scoperto e ad abbellire le nostre metropoli il progetto consente anche a chi non è prettamente un artista di sentirsi coinvolto in un’operazione di vera e propria “urban art”.
A mio parere in Italia non avrà molto successo. La modalità operativa, benché parta da una base acculturata di fruitori di mostre e musei, cosa risaputa di un’età piuttosto avanzata, si ispira e adotta le tecniche proprie degli street artists. Insomma non ce lo vedo un cinquantenne, con figli e moglie a casa ad aspettarlo uscire dal lavoro carico di problemi quotidiani, andarsi a cercare una parete su cui intervenire, attendere l’ora in cui le strade sono poco frequentate, che equivale a notte inoltrata, armarsi di colla e carta per posare in tutta fretta, per non essere visto, il ritratto di un benemerito sconosciuto di 100/200/300 e più anni fa. E i giovani? Ammesso che abbiano a disposizione dai 20 ai 40 dollari per comprare il manifesto, che potrebbe essere rimosso anche il giorno successivo, credete che siano veramente interessati a esportare un concetto di arte antica invece di essere essi stessi promotori di un nuovo stile di comunicazione visiva?
L’idea di Outing Project non mi dispiace affatto ma personalmente se dovessi rischiare di prendere anche solo una multa vorrei che il mio gesto potesse portare all’attenzione della gente almeno un messaggio sociale. Auspico che le nuove generazioni si facciano portatrici di un’avanguardia artistica, che alla mia età potrei anche non capire, ma che sia idonea a rompere gli schemi sociali per dare voce e farsi pubblica comunicazione di quel malessere che avvolge tutta la nostra umanità. E per fare ciò non si deve essere inseriti in nessun tipo di progetto ma deve nascere dal più profondo della nostra anima.
Paola Mangano
Alluvioni e politica : da dove si riparte?
Se la pioggia c’é sempre stata nella storia dell’umanità, compresi gli eventi alluvionali, è anche vero che l’uomo ha imparato la convivenza con questi eventi curando argini e rispettando le aree in cui le acque sfogavano la loro irruenza.
Da un po troppi anni in virtù di una cultura “sviluppista” si è preteso di costruire in modo indiscriminato su un territorio sicuramente difficile come quello Ligure, tombando, deviando ma soprattutto impermeabilizzando con colate di cemento praticamente pressoché tutto il territorio regionale.
L’effetto di questa politica sono che in presenza di eventi a volte eccezionali, ma in virtù anche delle evidenti mutazioni climatiche, sempre più frequenti, il territorio Ligure reagisce con immancabili disastri con conseguente conta dei danni e purtroppo anche di vite umane.
E’ evidente che questo sistema non regge più.
Loris
Burlando, così in trent’anni ha distrutto la Liguria – Il Fatto Quotidiano
di Ferruccio Sansa
Questa volta parlerò di me. Un giornalista non dovrebbe mai farlo. Mi rincresce doppiamente perché Genova in questo momento ha bisogno di tutto fuorché di polemiche. Ma credo di doverlo a me stesso, al legame che ho con Genova e alla mia famiglia. E a voi lettori.Nei giorni scorsi Claudio Burlando, Governatore della Liguria al potere da trent’anni, ha attribuito la responsabilità delle alluvioni e dei morti a mio padre, Adriano Sansa, sindaco di Genova dal 1993 al 1997. Una calunnia – il metodo Sansa invece del metodo Boffo – per salvare la poltrona: Burlando e la sua combriccola sono allarmati dalla voce di una mia candidatura alle elezioni regionali ma di questo parlerò poi. Ma la politica, come diceva il socialista Rino Formica, “è sangue e merda”. Forse in quella ligure oggi c’è poco sangue. Perciò sono costretto a rispondere. Mi limiterò ai fatti: 1. Burlando è stato vicesindaco e sindaco di Genova dal 1990 al 1993. In quei tre anni ci sono state due alluvioni 1992 e 1993. Come assessore all’Urbanistica, sarà un caso, Burlando scelse un architetto che negli anni successivi ha firmato operazioni immobiliari da centinaia di migliaia di metri cubi realizzate da costruttori oggi latitanti.2. Mio padre è stato sindaco dal 1993 due mesi dopo l’alluvione al 1997. Quando arrivò in Comune la realizzazione dello scolmatore incriminato era resa impossibile dai processi pendenti. Non fu lui, come invece afferma Burlando, a voler bloccare i lavori. Non solo: mio padre fu il primo sindaco che scelse uno stimatissimo geologo – Sandro Nosengo – come assessore all’Urbanistica. La priorità era chiara: basta cemento furono fermate le nuove edificazioni in collina, puntiamo sul risanamento del territorio e dei fiumi. Così si fece: i geologi consigliarono di investire in un piano complessivo che risanasse il bacino idrico di tutti i torrenti non solo del Bisagno. Per i piani di bacino dei corsi d’acqua, per la loro risistemazione e per la pulizia lavoro indispensabile che, ahimé non porta voti, né tagli di nastri furono investiti molti miliardi di lire. Il risultato, come ricordano i genovesi, fu che non si verificarono più alluvioni per diciotto anni.
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