Quel 16 Giugno del 1944

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E’ il primo pomeriggio del 16 giugno 1944 e sono appena terminate le lezioni all’ANCIFAP di Sestri Ponente.
Uno dei ragazzi, che abita a Bolzaneto, è appena uscito dalla scuola e cerca di raggiungere un tram fermo a poca distanza, ma si accorge immediatamente di una situazione di pericolo: i Soldati Tedeschi stanno bloccando le strade e le possibili uscite alla fabbrica San Giorgio di Sestri, rastrellando gli operai di quell’ azienda per destinarli al lavoro forzato nei campi di concentramento tedeschi.

Il ragazzo intravede una sola possibile via di fuga: cercare di salire sul tram fermo, la cui coda è però pericolosamente vicina ai Soldati Tedeschi.

Sale, allora, velocemente dalla porta anteriore, ma qui riceve una doccia fredda :
“ Scendi! E risali dalla porta posteriore!” gli grida in faccia il conducente del tram.
“Ma… non è possible… se scendo I tedeschi mi catturano!” replica il ragazzo
“Non è un problema mio! il regolamento dice chiaramente che si sale dalla porta posteriore”, replica inflessibile  il conducente.
Sono attimi di panico e di tensione su quel tram, quando, improvvisamente, accade l’imprevisto.
Ecco che si materializza la figura di un uomo in divisa,  non si sa se era già presente sul tram o se era appena salito … e chi ha raccontato la storia non ricorda se fosse un vigile, un metronotte o altro. L’uomo in divisa si avvicina al conducente, estrae la pistola e gli intima di partire immediatamente se gli era cara la vita.
Il tram partì e il ragazzo fu salvo, anche se alle sue spalle rimanevano prigionieri dei nazisti 1488 lavoratori.
Gli operai fatti prigionieri vengono portati con camion e autobus allo snodo ferroviario di Campasso e da li caricati su carri merci per il viaggio verso Mauthausen.

Saranno 43 i vagoni adibiti al trasporto di questi uomini.

Nel frattempo, si è diffusa la voce e molte donne genovesi si riversano sulla linea ferroviaria nel tentativo di fermare quella deportazione, ma vengono respinte con brutalità dalla canaglia tedesca.

Così a loro resta il compito di raccogliere I messaggi fatti scivolare fuori dai prigionieri con i  dati di ognuno, affinché diventi possibile avvertire I famigliari sulla loro sorte.

Anche a Bolzaneto è giunta la notizia dei treni carichi di operai e una madre, che sta proprio di fronte alla stazione, ha il forte timore che pure suo figlio sia su uno dei 43 vagoni. Mette insieme un po’ di capi di vestiario, qualcosa da mangiare e si precipita verso i vagoni che stanno per transitare.

Il ragazzo che a Sestri era riuscito a prendere il tram, sfuggendo per miracolo alla cattura, nel frattempo è sceso dal mezzo e velocemente si incammina verso casa quando, guardando la ferrovia vede sua madre che lo sta cercando sui vagoni.
La chiama, si vedono!
La madre comprende che il figlio è salvo e in quel momento diventa la madre di tutti quelli che sono sui vagoni, distribuendo loro quello che ha, sapendo che dovranno affrontare un lungo e terribile viaggio da cui molti non faranno ritorno.

Il racconto è reale e frutto della memoria della mia famiglia: il ragazzo era mio padre e mia nonna la madre in attesa.

Anche se apparentemente è una storia semplice, senza eroi, ci lascia, in realtà, un grande insegnamento attraverso i momenti e i protagonisti che la caratterizzano:

1) la scelta : sul tram in cui mio padre salì per sfuggire al rastrellamento, le due figure principali sono il conducente e l’uomo armato. Nel conducente si delinea una figura che incarna la filosofia del “tirare a campare e farsi I fatti propri”, del non compiere scelte appellandosi ai regolamenti fatti da altri, configurando pienamente la complicità morale ed etica al fascismo e a tutto quello che significò.
L’uomo in divisa armato invece è l’esempio della scelta. Sono coloro che non hanno esitato a compiere una scelta di campo, anche a costo della propria vita. Sono coloro che hanno restituito dignità a tutti gli italiani. Sono coloro che o sui monti o nelle città, nelle fabbriche organizzarono e praticarono la Resistenza al nazifascismo.
2) Le donne: le donne sono fondamentali in questa vicenda, come in tutta la storia della Resistenza . Pronte a mettersi in gioco nel cercare di bloccare I treni, saranno sempre un supporto incrollabile per gli uomini che avevano fatto la scelta della Resistenza.

3) Mia nonna infine, che con la morte nel cuore cercava suo figlio sui carri e improvvisamente lo vede arrivare libero e incolume. Compie pure lei una scelta, non sono tempi buoni, I vestiti costano il lavoro è precario e sempre più spesso bisogna ricorrere alla borsa nera per generi di prima necessità. Comprende che su quei vagoni sono tutti figli suoi, e per loro il futuro sarà incerto. Dona tutto quello che ha tra le mani a quei poveri disgraziati che sono in viaggio.

Ci insegna la solidarietà. La stessa solidarietà dei contadini nei confronti dei partigiani o di coloro che diedero protezione agli ebrei dopo la promulgazione delle leggi razziali. Senza la solidarietà la Resistenza non si sa quanto sarebbe durata e la vittoria non sarebbe stata scontata.

Il racconto è dedicato a quei 1488 lavoratori che pagarono con la deportazione il prezzo delle rivendicazioni sindacali che nel 1943/44 rappresentarono la Resistenza dei lavoratori genovesi al nazifascismo. Senza quel tipo di Resistenza di massa e popolare non sarebbe stato possibile raggiungere la vittoria finale nell’aprile del 1945, vittoria che trovò, grazie ai lavoratori che le avevano protette dalle razzie tedesche, le fabbriche operative e pronte a continuare a produrre e dare occupazione.
Loris

Dopo l’11 febbraio a Sturla contro le destre neonaziste alcune riflessioni.

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Grazie all’ANPI, al suo appello e grazie a partiti, associazioni , movimenti e semplici cittadini che lo hanno raccolto, Roberto Fiore e i suoi camerati europei se hanno voluto parlarsi lo hanno potuto fare in un appartamento privato e protetti oltre il ragionevole da ingenti forze di polizia. Plauso anche al senso di responsabilità dell’ANPI che si è sottratta ai tentative di forzatura, a volte di provocazione e non escludo anche di tentativi di infiltrazione. Nonostante chi ha operato per una soluzione diversa, scontri e cariche non sono diventati la notizia e non hanno condizionato e tolto visibilità al vero protagonista: L’antifascismo Genovese e la sua capacità di risposta democratica.
Fatto salvo quanto detto sopra però alcune questioni ritengo doveroso porle: necessitava un Ministro degli interni del PD per consentire alla destra xenofoba, negazionista e razzista di venire sfidando, a Genova? Se quelle migliaia di persone sfilavano invocando l’applicazione della legge Scelba e la più recente Mancino, cos’ha tutelato il ministro non impedendo un evento sia pubblico che in privato in osservanza delle suddette leggi? Alcune Questure di frontiera come a Ventimiglia allontanano attiviste no borders che danno consulenza legale ai migranti definendole “pericolose per l’ordine e la sicurezza pubblica”. Quanto pericolosi sono per l’ordine e la sicurezza pubblica loschi figuri che sono antitetici ai valori fondanti della nostra Costituzione o negazionisti nei confronti dei crimini commessi dai nazisti nel secondo conflitto mondiale.
E’ talmente debole e irriverente nei confronti della città Medaglia d’oro al valor militare della Resistenza la posizione del Ministro, del Governo e conseguentemente gli organismi territoriali rappresentanti il governo che quello che doveva essere un evento “privato” grazie alla nostra “televisione di Stato” che si è prodigata nei servizi in casa dei fascisti facendo diventare a tutti gli effetti l’evento pubblico. Un emblematico esempio di tv spazzatura!
*nb. Grazie Sindaco Doria, grazie perchè ormai fuori dagli equilibri elettorali ha ritenuto che il suo posto fosse in mezzo alle persone che sabato manifestavano contro il ritorno di una cultura e pratiche nazi-fasciste nella nostra città.
Loris Viari

Camilla Ravera racconta – 8 marzo – Giornata Internazionale della Donna – Perché non è una festa

La tradizione popolare racconta che l’8 marzo 1908 Mr. Johnson , proprietario dell’industria “Cotton” chiude a chiave all’interno della sua azienda le lavoratrici impegnate in una rivendicazione sindacale e che un incendio farà perire, arse vive, 129 lavoratrici. Ricerche negli archivi di quel tempo non avvalorano questa storia. Alcuni anni dopo, il 25 marzo 1911, alla Triangle Shirtwaist Company, situata nel cuore di Manhattan, che produce abbigliamento, un incendio causa la morte di 146 operai della Triangle, in gran parte giovani donne immigrate di origini italiane ed ebree, prevalentemente di età compresa fra i 13 e i 22 anni. In diversi paesi, ci furono in quegli anni iniziative che cercavano di mettere al centro la questione femminile ma in date diverse dall’8 marzo a secondo dei paesi e dai gruppi organizzati femminili. L’8 marzo 1917 a San Pietroburgo una grande manifestazione di donne chiedeva con forza la fine della guerra. Quella manifestazione e successive determineranno il crollo del regime zarista. Per questo motivo, il 14 giugno 1921, la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste, tenuta a Mosca, su proposta di Rosa Luxemburg fissò all’8 marzo la «Giornata internazionale dell’operaia», trasformata in:“La Giornata Internazionale della Donna.”

*****

(Tratto da “Camilla Ravera racconta la sua vita” di Rita Palombo – Rusconi editore)
…Nel 1898 andammo a Valenza. Papà veniva continuamente trasferito, specie dove era necessario istituire nuovi uffici del Ministero delle Finanze. In quegli anni lo Stato neonato si estendeva per dare vita alle strutture periferiche (….……..) Così come ad Acqui, a Valenza assistetti ad un fatto che mi rimase scolpito nella memoria. Per molto tempo appartenne ai ricordi della mia infanzia. Ma dopo, quando la mia scelta politica fu compiuta, ciò che successe quel giorno divenne un riferimento storico della mia battaglia per 1’emancipazione e la liberazione della donna.
Non ricordo più quanti anni avessi, forse frequentavo la seconda elementare, quindi sette o otto.
Mi piaceva andare a scuola, perché ero contenta di stare con gli altri bambini.
La mamma mi accompagnava ogni mattina e spesso si spazientiva perché mi fermavo ad osservare qualsiasi cosa colpisse l’attenzione. Eravamo arrivati da poche settimane in quella cittadina e avevo ancora molte cose da scoprire.
Mentre chiacchieravo con la mamma, sentii all’improvviso delle voci alterate, arrabbiate e subito dopo, da un angolo, vidi comparire tantIssime donne che avanzavano verso di noi. Ebbi paura. Strinsi la mano di mia madre e lei mi obbligò a fermarmi.
Era un corteo di lavoratrici. Prima ancora che chiedessi chi fossero e perché urlassero in quel modo la mamma, accortasi dello spavento che provavo, mi disse che erano le pulitrici dell’oro che protestavano, guidate da un uomo, un socialista che si chiamava Filippo Turati, perché con la loro paga, guadagnata lavorando dodici ore al giorno, non riuscivano a comprarsi nemmeno il pane. Mi invitò poi ad osservare le loro mani. Io le guardai: erano completamente rose dall’ acido che serviva a pulire l’oro. Erano scalze, malvestite e smunte.Chiesi dove andassero e perché quell’uomo le guidasse.
Lei rispose che forse erano dirette alla Lega delle lavoratrici e che Turati, anche se non era povero, era alla testa del corteo perché era un socialista. E per questo era ammirevole.
Poco dopo scomparvero in una via e mia madre mi spiegò che non bisognava aver paura dei lavoratori che probabilmente avrei visto altre volte camminare urlando per strada.
In quel modo la mamma mi insegnò ad amare i deboli e innanzi tutto a rispettarli. Allora mi chiesi: “Chi ha soldi non potrebbe darli a chi non li ha?”. Questa domanda mi frullò nella testa per giorni e giorni. Anch’io, pensavo, potevo far qualcosa per coloro che soffrivano. 
Inutile sottolineare l’importanza che quelle lavoratrici ebbero nella formazione politica di Camilla, che si tranquillizzò sulla sorte di quelle donne solo quando la mamma le disse:
«Le ripulitrici dell’ oro hanno ottenuto 1’aumento del salario.
Ora lavorano e sono contente».
Dopo un anno, nel 1899, i Ravera si trasferirono a Casale Monferrato. Lì Camilla assistette ad un altro episodio che influì molto sulle sue scelte politiche.
Andavamo spesso ai giardini pubblici, di fronte ai quali si stava costruendo un palazzo.
Io osservavo con interesse quel lavoro. Un giorno, oltre ai muratori, notai delle donne che trasportavano calce ed attrezzi pesanti sulle spalle e si arrampicavano su precarie scale di legno.
Mi fu spiegato che erano le mogli di quei muratori, che aiutavano i mariti a guadagnare quel tanto in più che rendeva sufficiente il salario per portare avanti la famiglia.
Fu allora che nacque in me coscientemente l’interesse per la condizione della donna lavoratrice, per i suoi problemi e per la lotta per l’emancipazione femminile.
Camilla intanto aveva terminato le scuole elementari e poi quelle complementari. Per continuare gli studi fu costretta a frequentare !’Istituto Magistrale, perché a Casale Monferrato c’era solo un ginnasio maschile in un collegio privato.
Quella scuola era nata grazie alle battaglie di alcune insegnanti, quasi tutte giovanissime, che prima avevano dato vita all’istituto privato, poi, con il tempo, grazie anche, se non soprattutto, all’ ottimo insegnamento che impartivano, apprezzato da studentesse e genitori, ottennero la convenzione a trasformarlo in una scuola parificata e successivamente da parificata a statale.
Erano quelli gli anni in cui si cominciava anche in Italia a parlare di emancipazione femminile. E furono belli.

Camilla Ravera

Nata ad Acqui Terme (Alessandria) il 18 giugno 1889, deceduta a Roma il 14 aprile 1988, insegnante.
È stata la prima delle due donne italiane sinora nominate senatore a vita (la seconda è Rita Levi Montalcini). Quando, il 26 gennaio 1982, fece il suo primo ingresso a Palazzo Madama, i senatori, riuniti in assemblea plenaria, l’accolsero tutti in piedi. Aveva 96 anni quando fu ancora chiamata a presiedere l’Assemblea. Un altro suo record: è stato il primo caso, nella storia dei movimenti politici del mondo, di una donna nominata (era il 1927), segretaria del suo partito. Era il Partito Comunista d’Italia (del quale era stata uno dei fondatori nel 1921 e nel quale aveva subito assunto la guida dell’organizzazione femminile, fondando anche il periodico La compagna). Camilla Ravera resse la segreteria del PCdI sino al 1930 quando, rientrata clandestinamente in Italia dalla Francia, fu arrestata e condannata a quindici anni e mezzo, trascorsi tra carcere e confino sino alla caduta del fascismo. Con Umberto Terracini, fu l’ultima dei confinati a lasciare Ventotene (“una ciabatta in mare”, come ebbe a descrivere l’isola). Lì ebbe a conoscere Alessandro Pertini (che l’avrebbe poi scelta, quarantaquattro anni dopo, per il laticlavio) e lì, con Terracini, fu espulsa dal suo partito per aver condannato il patto Ribbentrop-Molotov. 
Riacquistata la libertà, Camilla Ravera riuscì a raggiungere dopo molte peripezie i suoi famigliari, che erano sfollati a San Secondo di Pinerolo. Dopo l’8 settembre 1943, sapendo di essere di nuovo ricercata, la Ravera riparò in un casolare sulle colline, che diventò presto luogo di incontri politici clandestini. Dovette abbandonarlo quando i fascisti cominciarono a dare alle fiamme tutti i casolari della zona. Rientrata a Torino dopo la Liberazione, Camilla Ravera, riammessa nel PCI, divenne consigliere comunale. Nel 1947, con Ada Gobetti, del Partito d’Azione, fu tra le fondatrici dell’Unione Donne Italiane. Nel 1948 fu eletta deputato per il PCI. Aveva intanto ripreso le battaglie di sempre, cominciate idealmente quando lei, di famiglia borghese, aveva assistito, ancora bambina, ad uno sciopero di operaie a Valenza. Soprattutto si è impegnata nelle battaglie per la pace. Camilla Ravera ha lasciato molte pubblicazioni. Al suo libro Diario di trent’anniè andato, nel 1973, il “Premio Prato”. Nel 1978 la sua Breve storia del movimento femminile in Italia ha avuto il “Premio Viareggio”. Nel 1979 gli Editori Riuniti hanno raccolto in volume le Lettere al Partito e alla famiglia.Nel 1992 la Fondazione Istituto Gramsci ha acquisito l’Archivio Storico delle donne “Camilla Ravera”, costituito nel 1987 dalla Commissione femminile del PCI. Alla Ravera sono intitolate, tra l’altro, strade a Roma e in Toscana, la Federazione di Torino dei DS, Società cooperative, alcuni circoli del PRC.

Fonte Associazione Nazionale Partigiani d’Italia

 

 

 

 

 

 

8 marzo – Donne e Costituzione

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Il 2 giugno 1946 il suffragio universale e l’esercizio dell’elettorato passivo portarono per la prima volta in Parlamento anche le donne. Si votò per il referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente che si riunì in prima seduta il 25 giugno 1946 nel palazzo Montecitorio.
Su un totale di 556 deputati furono elette 21 donne: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e 1 dell’Uomo qualunque.
Alcune di loro divennero grandi personaggi, altre rimasero a lungo nelle aule parlamentari, altre ancora, in seguito, tornarono alle loro occupazioni. Tutte, però, con il loro impegno e le loro capacità, segnarono l’ingresso delle donne nel più alto livello delle istituzioni rappresentative.
Donne fiere di poter partecipare alle scelte politiche del Paese nel momento della fondazione di una nuova società democratica.
Per la maggior parte di loro fu determinante la partecipazione alla Resistenza. Con gradi diversi di impegno e tenendo presenti le posizioni dei rispettivi partiti, spesso fecero causa comune sui temi dell’emancipazione femminile, ai quali fu dedicata, in prevalenza, la loro attenzione.
La loro intensa passione politica le porterà a superare i tanti ostacoli che all’epoca resero difficile la partecipazione delle donne alla vita politica.

A queste donne, oggi 8 marzo, rivolgiamo un grato ricordo, con la volontà di riaffermare tutti i valori espressi nella nostra Carta Costituzionale

 

200px-AdeleBei Adele Bej
(Cantiano, 4 maggio 1904 – Roma, 15 ottobre 1976), è stata una sindacalista e politica italiana, membro dell’Assemblea costituente, senatrice e deputata del Partito Comunista Italiano

 

 

 

 

Nadia_gallico_spano Nadia Gallico Spano
(Tunisi, 2 giugno 1916 – Roma, 19 gennaio 2006) è stata una politica italiana, membro dell’Assemblea costituente italiana e deputato del Partito Comunista Italiano.

 

 

 

 

 

225px-NildeIotti Nilde Jotti
(Reggio nell’Emilia, 10 aprile 1920– Poli, 4 dicembre 1999), è stata una politica italiana, membro dell’Assemblea costituente italiana e deputato del Partito Comunista Italiano.prima donna a ricoprire la carica di Presidente della Camera dei deputati, nonché prima donna nella storia d’Italia a ricoprire una delle cinque più alte cariche dello Stato. Occupò lo scranno più alto di Montecitorio per tre legislature, dal 1979 al 1992, conseguendo un primato finora incontrastato nell’Italia repubblicana.

 

Teresa_mattei Teresa Mattei, detta Teresita
 (Genova, 1º febbraio 1921 – Usigliano, 12 marzo 2013), è stata una partigiana e politica italiana, parlamentare del Partito Comunista Italiano.Combattente nella formazione garibaldina Fronte della Gioventù (con la qualifica di Comandante di Compagnia) prese parte all’organizzazione dell’dell’uccisone del filosofo Giovanni Gentile. Fu anche la più giovane eletta all’Assemblea Costituente, dove assunse l’incarico di segretaria nell’Ufficio di Presidenza dell’Assemblea Costituente.

 

 

00006838 Angiola Minella,
(Torino, 3 febbraio 1920 – Torino, 12 marzo 1988), membro dell’Assemblea costituente italiana e parlamentare del Partito Comunista Italiano è stata una partigiana e politica italiana, esponente del PCI.

 

 

 

 

130px-Rita_Montagnana_1Rita Montagnana
(Torino, 6 gennaio 1895 – Roma, 18 luglio 1979) membro dell’Assemblea costituente italiana è stata una politica italiana, esponente e parlamentare del Partito Comunista Italiano

 

 

 

 

Teresa_Noce_2Teresa Noce
(Torino, 29 luglio 1900 – Bologna, 22 gennaio 1980) membro dell’Assemblea costituente è stata una partigiana, politica,antifascista italiana, parlamentare del Partito Comunista Italiano

 

 

 

 

 

Elettrapollastrini Elettra Pollastrini
(Rieti, 15 luglio 1906 – Rieti, 2 febbraio 1990) membro dell’Assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare del Partito Comunista Italiano.

 

 

 

 

 

Mariamaddalenarossi Maria Maddalena Rossi
(Codevilla, 29 settembre 1906 – Milano, 17 settembre 1995) membro dell’Assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare del Partito Comunista Italiano.

 

 

 

 

 

Laura_Bianchini Laura Bianchini
(Castenedolo, 23 agosto 1903 – Roma, 27 settembre 1983) membro dell’assemblea costituente è stata una politica e partigiana italiana, parlamentare della Democrazia Cristiana

 

 

 

 

 

Elsa_Conci Elisabetta Conci (detta Elsa)
(Trento, 23 marzo 1895 – Mollaro, 1º novembre 1965) membro dell’assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare della Democrazia Cristiana

 

 

 

 

FilomenadellicastelliFilomena Delli Castelli
(Città Sant’Angelo, 28 settembre 1916 – Pescara, 22 dicembre 2010) membro dell’assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare della Democrazia Cristiana

 

 

 

 

Maria_De_Unterrichter_JervolinoMaria De Unterrichter Jervolino
(Ossana, 20 agosto 1902 – 27 dicembre 1975) membro dell’assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare della Democrazia Cristiana

 

 

 

 

MariafedericiagambenMaria Federici Agamben
(L’Aquila, 19 settembre 1899 – Roma, 28 luglio 1984) membro dell’assemblea costituente è stata una politica e partigiana italiana, parlamentare della Democrazia Cristiana

 

 

 

 

Angela_Gotelli Angela Gotelli
(Albareto, 28 febbraio 1905 – Albareto, 21 novembre 1996) membro dell’assemblea costituente è stata una politica e partigiana italiana, parlamentare della Democrazia Cristiana

 

 

 

Angela_Maria_Guidi_Cingolani Angela Maria Guidi
(Roma, 31 ottobre 1896 – Roma, 11 luglio 1991) membro dell’assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare della Democrazia Cristiana

 

 

 

 

images Maria Nicotra Verzotto
(Catania 6 luglio 1913 – 15 luglio 2007) membro dell’assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare della Democrazia Cristiana

 

 

 

 

Vittoria_Titomanlio Vittoria Titomanlio
(Barletta, 22 aprile 1899 – Napoli, 28 dicembre 1988) membro dell’assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare della Democrazia Cristiana

 

 

 

Lina_Merlin Angelina Merlin (Lina)
(Pozzonovo, 15 ottobre 1887 – Padova, 16 agosto 1979)

membro dell’assemblea costituente è stata una politica e partigiana italiana, parlamentare del Partito Socialista

 

 

 

d6880Bianca Bianchi
(Vicchio, 31 luglio 1914 – 9 luglio 2000) membro dell’assemblea costituente è stata una politica e antifascista italiana, parlamentare del Partito Socialista Italiano, Partito Socialista Lavoratori Italiano

 

 

 

Ottavia_penna_buscemi Ottavia Penna
(Caltagirone, 12 aprile 19072 dicembre 1986) membro dell’assemblea costituente è stata una politica italiana, parlamentare del Fronte dell’Uomo Qualunque

Analisi del 2015

I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2015 per questo blog.

Ecco un estratto:

Un “cable car” di San Francisco contiene 60 passeggeri. Questo blog è stato visto circa 1.200 volte nel 2015. Se fosse un cable car, ci vorrebbero circa 20 viaggi per trasportare altrettante persone.

Clicca qui per vedere il rapporto completo.

Ventimiglia, resistere nel 2015

A Ventimiglia, al confine con la Francia, è accaduto e sta accadendo qualcosa di insopportabile, per la coscienza e per la politica. L’immagine che pubblichiamo si riferisce ai momenti, carichi di tensione, in cui le forze dell’ordine sono intervenute per sgomberare i profughi.  Mentre prepariamo il prossimo Corriere delle Migrazioni, che in larghissima parte sarà dedicato ai profughi e alla morte del diritto d’asilo in Europa, vi proponiamo la testimonianza di Alessandra Ballerini, l’avvocata-attivista che scrive spesso per noi. Alessandra era a Ventimiglia.

«Manca all’appello ancora l’ultimo treno, quello delle 23, e i profughi in stazione a Ventimiglia sono già almeno 400. Sudanesi, etiopi, eritrei, ghanesi, profughi del Togo, del Mali e della Guinea, tutti approdati sulle nostre coste nei giorni scorsi. La nostra piccola Africa ligure.
Tra loro, numerose donne anche giovanissime, stremate, stese per terra con occhi e corpi quasi inermi. Bellissime, nonostante tutto. Le osservi e ti domandi quanto sarà costata loro, nelle notti di prigionia in Libia, la loro bellezza acerba e indifesa, la loro solitudine, la loro determinata fragilità.
Vagano nella piazza antistante la stazione anche tantissimi ragazzini, “minori stranieri non accompagnati”, come vengono definiti col linguaggio tecnico dei giuristi. E anche dei bimbi piccoli. Nessuna traccia dei venti minori afghani che lunedì scorso erano comparsi in stazione.
Mi avvicino all’uniforme che, tra le tante presenti, annoiate e distratte, mi sembra più affabile e attenta. Gli chiedo informazioni sulla situazione. Lui è gentile e preparato. Esclude che i colleghi francesi abbiano notificato qualsiasi sorta di atto ai profughi respinti di fatto molto più che di diritto, alla frontiera di Mentone. Non crede comunque che lagendarmerie abbia usato la forza contro i migranti, basta la minaccia esplicita del loro schieramento lungo la strada. Un confine di uomini, anzi di divise.
Mentre parla s’indigna. «Queste sono persone che chiedono asilo – mi dice mentre una bimba eritrea di neppure due anni gli gira intorno – e non clandestini, come vengono chiamati dai giornalisti».
Io sgrano gli occhi, sorpresa nei miei pregiudizi da un’analisi così precisa e, visti i tempi, affatto banale. Lui si accorge del mio stupore e immediatamente aggiunge: «io porto questa divisa per difendere la democrazia nel mio paese, per tutelare lo stato di diritto. Un po’ come lei che fa l’attivista». Io veramente mi ero presentata come avvocata consulente di diverse associazioni umanitarie, ma lui da bravo “sbirro”, mi ha subito calato la maschera.
Mi siedo. Sull’aiuola, insieme ai migranti. Scambiamo con loro pochissime parole. Sono troppo stanchi, non voglio sottoporli anche al mio, seppure benevolo, interrogatorio, che si sommerebbe a quelli più implacabili dei tantissimi giornalisti presenti e armati di microfoni e telecamere.

Serena, l’operatrice della Caritas, si siede accanto a me e mi presenta alcuni richienti asilo conosciuti nei giorni precedenti. Mi mostrano i segni della scabbia. All’inizio fa come una S bianca sul polso, mi spiegano, e ripenso immediatamente a una frase geniale scritta su fb come risposta dissacrante contro gli idioti allarmisti che urlano all’untore: “ho scritto t’amo sulla scabbia”.
E poi prude tra le dita, mi raccontano. Nulla di terribile o inguaribile. Basta una pillola o una pomata e passa in tre giorni.
Si potesse fare lo stesso con la scabbia ben peggiore e decisamente più contagiosa e resistente del razzismo!

Mi sposto lungo la linea di passaggio con la Francia per capire, ancora una volta, come i diritti si possano sospendere con il semplice uso della forza.
Il “confine” è presidiato dalla gendarmerie. I respingimenti sono sommari, collettivi e informali. Pare non vengano notificati atti nè fornite spiegazioni o tantomeno ascoltate istanze. Agli agenti francesi basta agitare il manganello e il respingimento è fatto. E non risparmia nessuno neppure donne incinte o minori. La croix rouge sta al di qua del confine, in suolo italico, come a dire che soccorsi in Francia non se ne danno perchè in Francia è di fatto vietato ai profughi posare il piede. E cosi una parte di loro si assiepa sugli scogli e aspetta. Che le cose cambino, che le guardie si distraggano. che i diritti vengano ristabiliti. Ma non succede. Da giorni non succede nulla.
E cosi i profughi fanno avanti e indietro tra la stazione e gli scogli/confine. Sei chilometri all’andata e sei al ritorno. A volte, come in queste ore domenicali, sotto l’acqua, spesso sotto il sole cocente. Di sera si torna in stazione a prendere il pasto distribuito dai volontari della caritas e dalla crocerossa e poi a dormire dentro la stazione o sul piazzale antistante.

A Ventimiglia infatti non è stato ancora allestito alcun rifugio sicuro, da poco sono state montate delle docce e ai pasti pensano i volontari. Nessuno pensa alla salute e neppure chiamando il 118 si è ottenuto l’intervento di personale sanitario. Domenica le autorità avrebbero dovuto decidere quale immobile destinare a rifugio di queste persone esposte, oggi, pure alle scorribande di xenofobi francesi e nostrani e a fragorosi acquazzoni, ma ancora non sembra essersi trovata un soluzione neppure provvisoria.
La stazione intanto è presidiata da un’indifferente polizia italiana e nessuno viene identificato nè condotto in commissariato per l’identificazione.
Chi offre loro ascolto, vestiti ,medicine e cibo non ha bisogno di prendere le impronte per sapere chi sono, a loro basta guardarli negli occhi.
E quegli occhi ogni ora che passa si moltiplicano: lunedi sera i profughi sono circa 600 e tra loro sempre più minori e almeno venti tra neonati e bambini piccoli; intanto fortunatamente in stazione hanno aumentato gli spazi a disposizione dei profughi.
I giornali più gentili li chiamano transitanti: in realtà non transitano, non vagano, non invadono e non contagiano, semplicemente si ostinano, seppure sempre più stanchi, a esistere e a resistere, nonostante le nostre procedure ottuse e ingiuste, come il regolamento Dublino, o crudeli e fallaci, come la mancata previsione dei canali umanitari, nonostante i nostri confini e le nostre paure (prima tra tutte quella di dover scoprire che a vivere in un paese in pace non c’è alcun diritto ma solo immeritata fortuna).
Non transitano, semmai vengono loro malgrado allontanti, trasferiti, respinti.
Come succede anche oggi, che è già martedi, con la nostra polizia che decide inopinatamente di trascinare a forza un gruppo di profughi presenti al confine, verso la stazione. Un’operazione violenta nella sua assoluta insensatezza e umiliante per chi la subisce come per chi la esegue.
In stazione intanto gli instancabili volontari tornano a distribuire cibo e consigli anche ai nuovi giunti tra i quali una dozzina di giovanissimi afghani.
Respinti ma decisamente non vinti.
Ecco si, sono giorni che cerco la parola esatta per descriverli, questi giovani esuli, scacciati da tutti, esclusi dai diritti che pure si dicono inviolabili e universali, esausti di fughe, soprusi e umiliazioni, li guardi negli occhi e la parola che sale alle labbra, è invincibili, come gli eroi.

Alessandra Ballerini

fonte:http://www.corrieredellemigrazioni.it/2015/06/16/ventimiglia-resistere-nel-2015/

Dal cyberfemminismo al postumano

“Il cyberfemminismo è anche una lotta per accrescere la consapevolezza dell’impatto provocato dalle nuove tecnologie sulla vita delle donne, e sulle insidie delle divisioni di genere della tecno cultura nella vita quotidiana. Il cyberspazio non esiste in un vuoto, ma è intimamente connesso alle numerose istituzioni del mondo reale e ai sistemi che fioriscono sulle divisioni e le gerarchie di genere” (CAE e Faith Wilding, Notes on the political condition of cyberfeminism)

Sub Rosa (USA): Vulva De/Re constructa (artists/producers: Faith Wilding, Christina Nguyen Hung, video, 2000, 9'19'')

Sub Rosa (USA): Vulva De/Re constructa (artists/producers: Faith Wilding, Christina Nguyen Hung, video, 2000, 9’19”)

 La situazione socio-politica degli ultimi anni ’80 innescò una riflessione sull’impatto delle innovazioni nelle telecomunicazioni e nella micro-elettronica.
Donna Haraway, classe 1944, biologa, filosofa e ora Professore Emerito di Storia della Consapevolezza in California, iniziò in quegli anni ad occuparsi del rapporto tra il pensiero, le attività femminili e le nuove tecnologie. Nel 1991 pubblicò il saggio “Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature”, tradotto in italiano come “Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo”. Con un linguaggio dirompente e visionario, proponeva un’alternativa futurista, immaginando assemblaggi di corpi con innesti di hardware da cui sarebbero scaturiti tecnomostri mitologici. In parte esseri umani e in parte robot, ma senza il marchio del genere sessuale. In poco tempo il pensiero del Manifesto cyborg si diffuse in tutto il mondo e le cyberfemministe fecero breccia nell’immaginario tecnologico, dominio tradizionalmente maschile, resettando i codici culturali, destrutturando i canoni estetici e soprattutto scatenando la creatività.

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Un collettivo di videomaker e fotografe australiane militanti tra il 1991 e il 1997 fondò il collettivo VNS Matrix, presentandosi come «il virus del nuovo disordine mondiale, le terminator del codice morale». La novità stava nella tecnofilia che permeava le azioni e i proclami del gruppo, intento a dirottare i giocattoli dei tecnocowboys e rimappando il cyberspazio servendosi di quegli stessi giocattoli tecnologici.
L’opera più nota del gruppo, All New Gen (1994) è un gioco interattivo che funziona come una parodia dei giochi vai e uccidi, in cui il partecipante deve sabotare la banca dati del Big Daddy Mainframe con l’aiuto delle DNA Sluts, una sorta di supereroine ibride con laser che sparano dai genitali. L’obiettivo era riuscire a riprogrammare il codice patriarcale tramite la diffusione del virus del nuovo disordine mondiale. Julianne Pierce, a diversi anni di distanza dallo scioglimento del gruppo, dichiarò: “Dietro il divertimento c’era soprattutto il desiderio di lottare per un maggiore coinvolgimento delle donne nella datasfera… ecco dove interviene il cyberfemminismo… Si tratta di diventare attivi e promuovere il cambiamento, se necessario in modo anche aggressivo. VNS Matrix non era per il separatismo, era perché si riconoscesse che la cybersfera non è uno spazio neutro, ma di privilegio politico e culturale.”

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La rivendicazione dell’esperienza corporea e della sessualità femminile delle VNS Matrix ricorda quanto era già accaduto alla fine degli anni ‘60, con fenomeni come quello della cunt art (arte vaginale) e della goddess art (arte delle divinità femminili).

In Italia, il gruppo Cromosoma X rispose con il magazine Fikafutura ricco di argomentazioni che spaziavano dall’arte alla politica, sempre improntate di umorismo e sano cinismo uterino, come il grandioso fumetto “Feti in Faccia“. Ovunque nel mondo, studiose, attiviste e artiste (da Sadie Plant a Rosi Braidotti, dalle Guerrilla Girls alle SubRosa) si confrontarono con le tecnoscienze, per disintegrare i ruoli femminili. Tutti movimenti pochissimo conosciuti e che varrebbe la pena approfondire. Pensandoci bene è possibile, se non più che probabile che il loro tanto dirompente quanto sotterraneo loro agire abbia permesso a una come me di potermi esprimere in tutti i modi che ho sperimentato in questi anni.

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Fondamentalmente i temi che avvicinavano tutte le attiviste e che sono ancora attuali sono quesiti come “Le nuove tecnologie, in particolare Internet, modificano la rappresentazione che le donne danno di sé?” e “In che modo il Web può contribuire a veicolare una immagine della donna affrancata dai vecchi stereotipi?”.

Le esponenti del cyberfemminismo furono tra le prime a riconoscere le potenzialità di questi strumenti, ma anche il pericolo in essi nascosto. L’obbiettivo primario fu quello di avvicinare le donne alle nuove tecnologie, affinché non ne fossero escluse e non restassero solo semplici spettatrici ma soggetti attivi in grado di creare nuove informazioni da diffondere nella rete e conseguentemente nel mondo.

Vent’anni dopo le technodiscepole la celebrano a modo loro: vedi Make More Monsters di Deborah Kelly (all’Artspace di Sidney), una serie di animazioni digitali, create insieme al pubblico, in cui gambe femminili sorreggono teste di mantide assassina.

Le cyberfemministe continuano a esistere nell’ombra del cyberspazio in quella che io ormai definisco la nuova realtà. Che ci piaccia o no tutta la nostra vita si sta trasferendo nel web, la politica, la finanza, guerre e rivoluzioni, persino i sentimenti primari dell’uomo; amore e odio per non parlare del sesso. Noi stessi con i nostri blog, profili e quant’altro ne facciamo già massicciamente parte. Il postumano è iniziato.

Paola Mangano

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Fare Outing con l’arte

“Con il vostro telefono, fotografate ritratti di persone anonime sui muri dei musei, stampateli e trasferiteli sui muri della strada. Nessuno li guarda davvero nelle loro cornici.
Piccoli. Secondari. Dimenticati. Decisamente anonimi. Quasi morti.
Riportiamoli in vita nel nuovo mondo. Dove ora hanno tutto il tempo per guardaci.”

Si presenta così il progetto Outing nato dall’idea del creativo francese Julien de Casabianca che già sta raccogliendo numerose adesioni da tante città europee e del mondo.
La finalità è quella di rendere i capolavori dell’arte, in particolar modo ritratti di personaggi anonimi dimenticati, fruibili e visibili da tutti facendoli uscire dai soliti ambienti museali per trasferirli direttamente sulle nostre strade.

1 Parigi

Parigi

 Così se stiamo visitando una mostra e un dipinto cattura la nostra attenzione possiamo fotografarlo, se la prospettiva è distorta correggerlo per esempio con photoshop trasformandolo in formato CMYK (che è quello usato per la stampa), e se non siete in grado di stamparlo da soli potete inviare lo scatto modificato ad Outings che provvederà a farlo per voi (per una cifra che va dai 20 ai 40 dollari) per consentirvi di affiggerlo sui muri della città.

Parigi

Parigi

Qualcuno si chiederà se l’operazione è legale. Pare che la colla con cui vengono fatti aderire ai muri non danneggi le superfici. Per essere più sicuri di non essere perseguiti si possono cercare pareti non particolarmente curate. Tutte le informazioni specifiche vengono rilasciate sul sito ad esso dedicato Outings Project.
Se volete vedere quelli realizzati fino ad ora andate nella pagina galleries dove troverete una mappa interattiva che segnala i vari siti in giro per il mondo.

Barcellona

Barcellona

Oltre a portare l’arte allo scoperto e ad abbellire le nostre metropoli il progetto consente anche a chi non è prettamente un artista di sentirsi coinvolto in un’operazione di vera e propria “urban art”.

Padova

Padova

A mio parere in Italia non avrà molto successo. La modalità operativa, benché parta da una base acculturata di fruitori di mostre e musei, cosa risaputa di un’età piuttosto avanzata, si ispira e adotta le tecniche proprie degli street artists. Insomma non ce lo vedo un cinquantenne, con figli e moglie a casa ad aspettarlo uscire dal lavoro carico di problemi quotidiani, andarsi a cercare una parete su cui intervenire, attendere l’ora in cui le strade sono poco frequentate, che equivale a notte inoltrata, armarsi di colla e carta per posare in tutta fretta, per non essere visto, il ritratto di un benemerito sconosciuto di 100/200/300 e più anni fa. E i giovani? Ammesso che abbiano a disposizione dai 20 ai 40 dollari per comprare il manifesto, che potrebbe essere rimosso anche il giorno successivo, credete che siano veramente interessati a esportare un concetto di arte antica invece di essere essi stessi promotori di un nuovo stile di comunicazione visiva?

Madrid

Madrid

L’idea di Outing Project non mi dispiace affatto ma personalmente se dovessi rischiare di prendere anche solo una multa vorrei che il mio gesto potesse portare all’attenzione della gente almeno un messaggio sociale. Auspico che le nuove generazioni si facciano portatrici di un’avanguardia artistica, che alla mia età potrei anche non capire, ma che sia idonea a rompere gli schemi sociali per dare voce e farsi pubblica comunicazione di quel malessere che avvolge tutta la nostra umanità. E per fare ciò non si deve essere inseriti in nessun tipo di progetto ma deve nascere dal più profondo della nostra anima.

Paola Mangano

Padova

Padova

Padova

Padova

Parigi

Parigi

 

 

Alluvioni e politica : da dove si riparte?

Genova – 16-nov-2014
Gli eventi di ieri in Liguria credo che impongano più di una riflessione.
Mai, credo, ci siamo sentiti così fragili e rassegnati all’evolversi dei capricci degli Dei falsi e bugiardi.
A sera resta la lettura del bollettino di guerra che parla di un morto, di sfollati, di famiglie isolate di miriadi di smottamenti e frane, nonché della paura che resta nei confronti di rivi e torrenti dal comportamento imprevedibile.
Se la pioggia c’é sempre stata nella storia dell’umanità, compresi gli eventi alluvionali, è anche vero che l’uomo ha imparato la convivenza con questi eventi curando argini e rispettando le aree in cui le acque sfogavano la loro irruenza.

Da un po troppi anni in virtù di una cultura “sviluppista” si è preteso di costruire in modo indiscriminato su un territorio sicuramente difficile come quello Ligure, tombando, deviando ma soprattutto impermeabilizzando con colate di cemento praticamente pressoché tutto il territorio regionale.

L’effetto di questa politica sono che in presenza di eventi a volte eccezionali, ma in virtù anche delle evidenti mutazioni climatiche, sempre più frequenti, il territorio Ligure reagisce con immancabili disastri con conseguente conta dei danni e purtroppo anche di vite umane.

E’ evidente che questo sistema non regge più.

La risposta viene affidata alla politica, perché è la politica che determina come rapportarsi col territorio: se spremerlo come un limone sino alle estreme conseguenze o se, considerando che è un bene comune, risanarlo e utilizzarlo rispettosi delle sue dinamiche e delle sue esigenze.
La politica delle “Grandi opere” e della cementificazione selvaggia ha miseramente fallito e sicuramente serve un cambio di passo, una inversione di tendenza se l’obbiettivo è quello di restituire alle generazioni future un territorio in cui vivere, crescere, studiare e lavorare in sicurezza.
Nei giorni scorsi la novità che si è presentata nel quadro politico ligure è la candidatura di Sergio Cofferati. Novità in quanto dalle sue dichiarazioni la Liguria è in una situazione emergenziale a cui vanno date risposte che chi ha governato sino ad ora è impossibilitato a dare, risposte che ci riportino a “sicurezze” che oggi non ci sono evidentemente più.
Non essendo contenute all’interno di un “programma politico” le considerazioni di Cofferati restano sul piano delle enunciazioni che, per quanto significative, restano al momento attuale prive dei contenuti specifici sui quali confrontarsi, sui quali dissentire o condividere.
Penso che oggi esprimerci nei confronti di questa candidatura in termini di tifoseria, favorevoli o contrari, sarebbe un cattivo servizio al territorio al quale teniamo e a cui vorremmo dare un futuro diverso dal presente attuale, e, credo che ad oggi, la candidatura Cofferati possa rappresentare una risorsa nel momento in cui dipanati i contenuti, la visione futura possa indirizzarsi al riassetto idrogeologico, la messa in sicurezza e il rilancio del lavoro su tutto il territorio Ligure. Un patto sul territorio.
Questi sono gli elementi su cui oggi abbiamo il potere di ragionare e che come “Sinistra” dobbiamo avere il coraggio di affrontare “laicamente” senza preconcetti e senza interessate accondiscendenze.

Loris

Burlando, così in trent’anni ha distrutto la Liguria – Il Fatto Quotidiano

di Ferruccio Sansa

Questa volta parlerò di me. Un giornalista non dovrebbe mai farlo. Mi rincresce doppiamente perché Genova in questo momento ha bisogno di tutto fuorché di polemiche. Ma credo di doverlo a me stesso, al legame che ho con Genova e alla mia famiglia. E a voi lettori.Nei giorni scorsi Claudio Burlando, Governatore della Liguria al potere da trent’anni, ha attribuito la responsabilità delle alluvioni e dei morti a mio padre, Adriano Sansa, sindaco di Genova dal 1993 al 1997. Una calunnia – il metodo Sansa invece del metodo Boffo – per salvare la poltrona: Burlando e la sua combriccola sono allarmati dalla voce di una mia candidatura alle elezioni regionali ma di questo parlerò poi. Ma la politica, come diceva il socialista Rino Formica, “è sangue e merda”. Forse in quella ligure oggi c’è poco sangue. Perciò sono costretto a rispondere. Mi limiterò ai fatti: 1. Burlando è stato vicesindaco e sindaco di Genova dal 1990 al 1993. In quei tre anni ci sono state due alluvioni 1992 e 1993. Come assessore all’Urbanistica, sarà un caso, Burlando scelse un architetto che negli anni successivi ha firmato operazioni immobiliari da centinaia di migliaia di metri cubi realizzate da costruttori oggi latitanti.2. Mio padre è stato sindaco dal 1993 due mesi dopo l’alluvione al 1997. Quando arrivò in Comune la realizzazione dello scolmatore incriminato era resa impossibile dai processi pendenti. Non fu lui, come invece afferma Burlando, a voler bloccare i lavori. Non solo: mio padre fu il primo sindaco che scelse uno stimatissimo geologo – Sandro Nosengo – come assessore all’Urbanistica. La priorità era chiara: basta cemento furono fermate le nuove edificazioni in collina, puntiamo sul risanamento del territorio e dei fiumi. Così si fece: i geologi consigliarono di investire in un piano complessivo che risanasse il bacino idrico di tutti i torrenti non solo del Bisagno. Per i piani di bacino dei corsi d’acqua, per la loro risistemazione e per la pulizia lavoro indispensabile che, ahimé non porta voti, né tagli di nastri furono investiti molti miliardi di lire. Il risultato, come ricordano i genovesi, fu che non si verificarono più alluvioni per diciotto anni.

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